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Chi fomenta la caccia mediatica contro Matteo Renzi e Maria Elena Boschi

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Sembrò subito una battuta: una delle solite di Massimo D’Alema. Che pochi giorni prima del voto referendario sulla riforma costituzionale, sicuro e naturalmente compiaciuto della vittoria del no, ma non tanto forse da prevederne le dimensioni, con ben 18 punti percentuali di distacco dal sì, disse che gli sarebbe toccato il compito di difendere Matteo Renzi dai tanti, troppi “cani” che lo avrebbero azzannato.

Lo avrebbe difeso proprio lui, lo storico “Baffino”, che ne era stato il primo e più celebre rottamato, costretto a rinunciare a ricandidarsi alle elezioni del 2013 per non subire l’umiliazione del rifiuto della direzione del Pd, preteso dal sindaco di Firenze non ancora segretario del partito, di concedergli la deroga alla incandidabilità di chi aveva troppe legislature sulle spalle. E D’Alema ne aveva, per quanto non potesse essere considerato proprio un vecchio, con 63 anni che avrebbe compiuto il 20 aprile di quell’anno.

Lo stesso Renzi, sempre da sindaco ancora di Firenze, si sarebbe poi precipitato a riceverlo con tutti gli onori nella sua città durante la scalata alla segreteria del Pd, pensando forse già allora di scalare subito dopo anche Palazzo Chigi. Dove lo stesso Renzi – immaginò D’Alema – avrebbe potuto utilizzarne esperienza e rapporti internazionali per mandarlo a Bruxelles a rappresentare l’Italia nella nuova Commissione Europea, dopo le elezioni continentali del 2014. Ma fu un’illusione, non si è mai capito bene se imprudentemente assecondata dal rottamatore nel frattempo diventato anche presidente del Consiglio e ancora più imprudentemente offertosi alla presentazione, a Roma, di un libro scritto da D’Alema, guarda caso, proprio sull’Europa.

Terribile dovette essere pertanto la delusione dell’ex dirigente comunista, che si sentì nuovamente o doppiamente rottamato, quando Renzi mandò a Bruxelles, trasferendola dalla Farnesina, la giovane Federica Mogherini, sicuramente meno esperta di chi peraltro l’aveva già preceduta al ministero degli Esteri.

A peggiorare la delusione, diciamo pure il risentimento, di D’Alema arrivò nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale l’accusa pubblicamente rivoltagli dall’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti, oggi ministro dello Sport del conte Paolo Gentiloni Silverj, di essere salito sulle barricate del no per vendicarsi del “posticino” di consolazione negatogli in Europa da Renzi. Dai cui dintorni uscirono poi voci secondo le quali a non volere D’Alema a Bruxelles sarebbero stati addirittura i socialisti preferendogli la Mogherini. Fu un’altra cosa avvertita come una pugnalata dal rottamato, che si riservò minacciosamente, al pari d’altronde di Renzi, di raccontare prima o poi come effettivamente fosse stata gestita la vicenda della sua candidatura alla Commissione dell’Unione.

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Per quanto già noti, ho voluto ricordare questi fatti per sottolineare l’aspetto non so se più clamoroso o sarcastico del proposito espresso da D’Alema, alla vigilia del referendum, di difendere Renzi dai “cani” scatenati dalla sconfitta dei sì.

Adesso si è aperta davvero quella caccia a Renzi e al renzismo prevista dal rottamato che già ne pregustava la sconfitta : una caccia davvero spietata, politica e mediatica, in cui si stanno prodigando giornaloni e giornaletti che si distinguevano sino a due settimane fa per l’ammirazione verso l’allora presidente del Consiglio, o per la grande cautela con la quale avanzavano qualche dubbio o critica. Ora non gli perdonano – come la Repubblica e il Corriere della Sera – di avere imposto Maria Elena Boschi al nuovo governo come sottosegretaria unica alla presidenza del Consiglio, equivalente ad un vice presidente. O di avere voluto la conferma del ministro del Lavoro Giuliano Poletti per fargli spiegare provocatoriamente che fra le ragioni delle elezioni anticipate c’è la volontà di aggirare, rinviandolo, il referendum promosso dalla solita Cgil, come ai tempi dei tagli alla scala mobile dei salari, contro la riforma renziana del mercato del lavoro chiamata Jobs act, e comprensiva della nuova e meno stringente disciplina dei licenziamenti col famoso articolo 18 dello statuto dei diritti del lavoratore.
Non parliamo poi delle deleghe ritenute eccessive al giovanissimo e scapigliato ministro Luca Lotti, già sottosegretario di Renzi a Palazzo Chigi, che oltre allo sport si deve occupare di Cipe e di editoria.

Ebbene, adesso voglio vedere se davvero D’Alema avrà il coraggio di difendere il segretario ancora in carica del Pd. O solo di non aggiungersi alla caccia alla volpe ferita. Il coraggio o il gusto sadico di dimostrare al rottamatore le qualità che può avere un rottamato di lusso come lui.
Certo, quella generosa disponibilità a difendere il Renzi sconfitto e tradito dai soliti opportunisti fu contraddetta da D’Alema indicando come precedente del suo generoso modo di fare politica la “difesa” da lui fatta di Bettino Craxi dopo la caduta politica, e nel dramma che ne precedette la fine in Tunisia. Quando i magistrati di Milano si rifiutarono di garantire al “latitante” il ritorno in Italia da libero per permettergli di curarsi meglio. Che significava poi morire in patria, data la gravità ormai terminale delle condizioni di salute del leader socialista.

A quella curiosa rivendicazione d’aiuto Stefania Craxi, che aveva vissuto quei giorni e quelle ore vicino al padre, reagì augurando a Renzi di trovare ben altri aiuti. In effetti, non si era levata da D’Alema, allora presidente del Consiglio, nessuna parola o cenno percettibile di dissenso e di critica verso i potentissimi uffici giudiziari di Milano, ostinati nell’associare l’immagine di un ritorno di Craxi in Italia ai carabinieri o poliziotti che avrebbero dovuto piantonarlo in ospedale, e poi magari agli arresti domiciliari.

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Gli unici compagni di D’Alema che hanno avuto il coraggio di difendere almeno la memoria di Craxi sono stati Piero Fassino e Giorgio Napolitano.

Fassino scrisse di Craxi, in un onesto libro autobiografico del 2003 sulla propria “passione” per la politica, non come di un delinquente, ma come di un leader che aveva saputo avvertire prima e meglio di Enrico Berlinguer la necessità di modernizzare la sinistra e le istituzioni. E di avere vinto in tal modo la partita nei suoi anni di governo da far morire involontariamente il segretario del Pci di crepacuore in quel drammatico comizio elettorale del 1984 a Padova.

Napolitano, pur non arrivando ai riconoscimenti dell’ultimo segretario dei Ds ex Pci, in occasione del decimo anniversario della morte di Craxi scrisse alla vedova dal Quirinale, su carta intestata di presidente della Repubblica, per riconoscere che il marito non poteva essere giudicato solo per le sue vicende giudiziarie. E per lamentare il fatto ch’egli avesse comunque pagato con “una durezza senza uguali”, per mano giudiziaria, mediatica e politica, i suoi errori, commessi – aggiungo io – al pari di tutti gli altri che avevano praticato il finanziamento illegale dei loro partiti.

D’Alema non ha mai detto, e forse neppure pensato, qualcosa di simile. Però ha pensato di volere o poter difendere Renzi dal linciaggio di riformatore avventato, di aspirante dittatore fortunatamente fermato dagli elettori il 4 dicembre, di pericoloso ricercatore di rivincite e quant’altro. Vedremo se egli ne sarà davvero capace, o se continuerà invece a produrre il solito vino, ora che alterna la passione per la politica a quella per le viti.


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