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Benvenuti nell’ubriacante caos del Partito Democratico

Come nella storia del bicchiere mezzo pieno, secondo gli ottimisti, o mezzo vuoto, secondo i pessimisti, così è apparsa l’aula di Montecitorio nel momento del dibattito e del voto di fiducia al governo del conte Paolo Gentiloni Silveri. Che il solito Marco Travaglio, anche a costo di procurare un altro dispiacere al fondatore, socio e amico Antonio Padellaro, ha già provveduto sul Fatto Quotidiano a riscrivere all’anagrafe politica con un solo cognome: Genticloni, per i troppi cloni di Matteo Renzi che gli farebbero compagnia.

Renzianissima, d’altronde, è l’ex ministra delle riforme e d’altro ancora Maria Elena Boschi, formalmente degradata a sottosegretaria ma in realtà, essendo l’unica a Palazzo Chigi, è di fatto la vice presidente del Consiglio, sulla cui scrivania o nei cui cassetti passano tutte le pratiche provenienti o destinate al capo del governo. Così è stato per Gianni Letta con Silvio Berlusconi o, per risalire alla cosiddetta prima Repubblica, dove peraltro sempre più numerosi sono quelli che vorrebbero tornare, per l’indimenticabile e simpatico Francesco Compagna, pure lui formalmente degradato da ministro a sottosegretario, con Giovanni Spadolini, o per Franco Evangelisti con Giulio Andreotti, o per lo stesso Andreotti, in tempi ancora più lontani, con Alcide De Gasperi.

Gentiloni o Genticloni che sia, non so francamente se il presidente del Consiglio nell’aula di Montecitorio, come poi in quella del redivivo Senato, abbia avuto modo di preoccuparsi più per la mezza aula vuota, abbandonata dagli oppositori più duri, come si proclamano i grillini, i leghisti e i fratelli politici di Giorgia Meloni, o per la metà piena. Dove si sono ritrovati altri oppositori dichiarati – come i berlusconiani, frattaglie centriste e i compagni di Nichi Vendola – e i parlamentari di maggioranza del Partito Democratico. Le cui condizioni si trovano descritte in questo titolo tanto onesto quanto inquietante non del Giornale della famiglia Berlusconi ma dell’Unità, la storica testata del vecchio Pci fondata da Antonio Gramsci e diretta, nella nuova edizione di conio renziano, da una persona amabile come il vignettista Sergio Staino, incapace di mentire. Il titolo è questo: “Finalmente il Pd non si spacca”. E sotto, a caratteri meno grandi ma non meno significativi: “giusto nell’attimo del voto”.

Lo stesso Staino, poi, pur già impegnato a sostenere la ricandidatura di Renzi alla segreteria nel congresso anticipato che sta per essere convocato per non più tardi del mese di marzo, con una delle sue vignette che valgono da sole più di tre editoriali messi insieme fa morire d’invidia i parlamentari del Pd presenti per i grillini e i leghisti assenti al momento della presentazione di Angelino Alfano: il presidente del cosiddetto Nuovo Centro Destra, nella nuova veste di ministro degli Esteri, dopo gli abbondanti tre anni e mezzo trascorsi al Viminale come ministro dell’Interno.

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Dietro l’apparente unità del Pd – “giusto nel momento del voto” di fiducia, per ripetere la precisazione di Staino sullo stato attuale delle cose – c’è una continua ebollizione di malumori, persino fra i renziani, che il segretario uscente del partito ha sorpreso e spesso deluso sia per le conferme mancate sia per le promozioni concesse o autorizzate al suo successore a Palazzo Chigi.

Non parliamo poi degli antirenziani, già usciti allo scoperto nell’ultima riunione della direzione del partito, o ai suoi margini, col minaccioso annuncio che il nuovo governo dovrà guadagnarsi in ogni ora del giorno e della notte, e per ogni decisione da prendere, il loro consenso per niente scontato, quindi, ma adesso tentati da un’altra avventura referendaria da chiudere con gli stessi effetti di quella sulla riforma costituzionale. Ora tocca al Jobs act, come Renzi ha voluto chiamare in inglese la sua riforma del mercato del lavoro.

Sarebbe, quest’ultimo, un referendum talmente rischioso sul piano politico e sociale, con le piazze che grillini e leghisti minacciano di riempire già per altri motivi, che pur di evitarlo, rinviandolo di uno o due anni, e non potendosi improvvisare in pochi mesi una riforma della riforma, si dovrebbe accelerare il ricorso allo scioglimento anticipato delle Camere e alle conseguenti elezioni. Ma in tal modo i sostenitori di questo referendum contribuirebbero nel Pd a quelle elezioni anticipate cui si dicono contrari vedendovi un odioso tentativo di Renzi di prendersi una rivincita politica sulla sconfitta subìta sul terreno, sempre referendario, della riforma costituzionale.

Siamo di fronte, come vedete, ad un pasticcio enorme, che solo il Pd, e più in particolare la minoranza accecata da quello che ormai è soltanto odio per Renzi, può produrre. E che, ad occhio e croce, date le dimensioni delle varie forze politiche monitorate dai sondaggi, giova solo al movimento di Grillo, nonostante i guai politici e ora anche giudiziari in cui esso si trova nella gestione del Campidoglio, e non solo del Campidoglio.

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Non vorrei dare un dispiacere troppo grande a Staino, per il quale non so se ho più stima o simpatia, ma le vicende interne del Pd mi ricordano quelle della fase terminale della Democrazia Cristiana. Me le ricordano anche visivamente per la presenza, sempre nel Pd, di tante persone provenienti proprio dalla Dc. Alle quali – diciamoci francamente la verità – gli ex o post-comunisti non perdonano di essere entrati come inquilini nell’ultima edizione del vecchio Pci e di esserne diventati i proprietari, riducendo allo stato di inquilini gli altri. E il tutto in un tale rimescolamento di carte, o in quello che Massimo D’Alema definì presto “un amalgama mal riuscito”, che una parte dell’ex sinistra democristiana ha scavalcato a sinistra gli ex o post-comunisti e una parte di questi ultimi ha scavalcato a destra, diciamo così, gli altri. Roba da capogiro politico, e dagli effetti elettorali imprevedibili.


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