Mi è stato chiesto se la vittoria di Donald Trump possa significare una battuta d’arresto nell’attuazione dell’accordo di Parigi sottoscritto dall’universo mondo circa un anno fa. Quel che farebbe presupporre che esso abbia effettivamente significato una svolta storica nelle politiche climatiche e non, come a me sembra, un insieme di buone intenzioni condite con molta retorica senza alcuna decisione concreta, come avrebbe richiesto la situazione di drammatica urgenza dipinta dal consenso scientifico a Parigi. In questa lotta, il fattore tempo è cruciale perché i costi aumentano in modo non lineare col rischio che gli obiettivi divengano impossibili da raggiungere.
Il premio Nobel Jean Tirole alla vigilia della fallita conferenza di Copenaghen del 2008 scrisse che “in assenza di sanzioni contro i Paesi che firmano un accordo e non lo rispettano […] le promesse si riveleranno quelle che realmente sono: parole al vento”. Esattamente quel che temo stia accadendo per il rifiuto (perché?) a prevedere sanzioni (se non morali) in un accordo proiettato a fine secolo e quindi politicamente insignificante come dimostra il cambio di inquilino alla Casa Bianca. Speriamo che Tirole questa volta abbia torto ma è un fatto che business as usual è l’attitudine generale che gli Stati vanno mostrando. I segnali sono sconfortanti a iniziare dalla decisione della Cina di aumentare al 2020 la potenza elettrica a carbone del 20% per 200 Gwe (pari a quella della Germania) o dell’India di raddoppiare la produzione di carbone per non dire dei due sonori schiaffoni della Corte suprema e Camera dei rappresentanti a Obama bocciandogli le proposte del Clean power plan che doveva costituire l’asse portante del dopo-Parigi e la federal carbon tax giudicata in modo bipartisan “devastante per l’economia americana”. Nonostante considerasse il surriscaldamento una “catastrofe irreversibile” la conversione di Obama sulla strada di Parigi è stata del tutto tardiva e non tale da cancellare il poco che aveva fatto sulla base di argomenti non lontani – se non nei toni – da quelli di Trump (danni all’industria americana, resistenza dell’opinione pubblica, ecc).
Quanto all’Europa l’improvvida proposta della Commissione Junker di capovolgere l’iniziale architettura del nuovo Pacchetto energia-clima reintroducendo impegni vincolanti nazionali per la riduzione delle emissioni nei settori non-Ets (ma non per rinnovabili e risparmio) ha avuto come effetto di posticipare ogni decisione alla conclusione del negoziato tra Commissione e Stati sulla ripartizione del calo delle emissioni che sarà lungo e complesso considerato che a ispirarlo dovrebbero essere i principi dell’equità e della solidarietà, merce rara nell’Europa di questi tempi. Non vorrei con tutta franchezza – venendo alla domanda iniziale – che la vittoria di Trump finisca per costituire un comodo alibi per incolpare ipocritamente l’America di quel che gli altri non stanno facendo. Tra le molte offese propinategli quella forse più lieve è che sia totalmente incompetente su tutto. Sarà anche così non potendosì però in linea di principio dar dell’incompetente a chi non ha le tue idee. Ebbene, la sua prima idea in tema di energia – al di là degli sguaiati slogan elettorali – è America first: esattamente quella di ogni altro presidente americano con la redazione di fallimentari piani tesi ad assicurare al Paese una piena “indipendenza energetica”. L’unico che vi è in buona parte riuscito (anche senza alcun piano) è stato proprio Obama nei cui anni l’America ha conosciuto la più straordinaria crescita della produzione di petrolio dai tempi di Eisenhower: da 7,2 mil.bbl/g (2009) a 12,4 mil.bbl/g (+72%), con una moltiplicazione del numero di pozzi, trivelle, metri perforati. Risultato: l’indipendenza petrolifera è aumentata dal 38% a 63% dei consumi; quella energetica totale dal 77% all’86%. Consolidarla sarà l’obiettivo anche di Trump.
L’altra questione dirimente è la sua posizione verso la questione climatica che ha definito un “inganno creato da e per la Cina, per rendere non competitiva l’industria manifatturiera americana”. Non potendo annullare la ratifica dell’Accordo di Parigi fatta da Obama – come fece nel 2001 Bush Junior non sottoponendo a ratifica il Protocollo di Kyoto sottoscritto da Al Gore – Trump non vi darà esecuzione: rottamando la regolazione ambientale, non inasprendo i limiti alle emissioni delle auto, allentando i vincoli all’attività petrolifera, evitando ogni costo addizionale per imprese e famiglie americane per altro indigeribili dal Congresso. Non ci si illuda che se avesse vinto Hillary Clinton il dopo-Parigi sarebbe stato molto diverso. In fondo il pur modesto calo delle emissioni americane negli anni di Obama non è stato il frutto di sapienti politiche, ma delle convenienze di mercato che hanno portato a sostituire il gas naturale al carbone. Sostituzione che Trump – al di là delle promesse fatte ai minatori Trump digs coal – non riuscirà a capovolgere, così come penso per il sostegno alle nuove rinnovabili gestite in gran parte dagli Stati nonostante le ritenga a big mistake driven by wrong motivation e che pur coprendo ancora una quota marginale dei consumi (3%) hanno mobilitato molti capitali e imprenditori.
Vi sarà, per finire, una “battuta d’arresto” nel dopo-Parigi? È altamente possibile che questo accada nella speranza, però, non sia di alibi per altri Stati a non fare quel che a Parigi si sono impegnati a fare e che non siano malauguratamente i fatti a far cambiare idea a Donald Trump sui rischi climatici.