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Come è nato l’incarico a Paolo Gentiloni di formare il nuovo governo

In attesa della notizia, prontamente arrivata di prima mattina, della convocazione al Quirinale del ministro uscente degli Esteri Paolo Gentiloni Silveri, che il presidente del Consiglio dimissionario e segretario del Pd aveva fatto indicare dalla delegazione del suo partito al capo dello Stato per la formazione del nuovo governo, il più visibilmente contiguo al suo, ero andato a leggermi all’alba, come faccio da tanti anni, l’omelia laica di Eugenio Scalfari ai fedeli lettori della sua Repubblica di carta.

Ma prima di riferirvene, con le piacevoli sorprese di cui vi dirò, debbo precisare una cosa sulle intense ma rapide consultazioni di rito condotte dal buon Sergio Mattarella nel suo studio alle Vetrate dell’antico palazzo dei Papi, dei Re e infine dei presidenti della Repubblica. Una cosa apparentemente modesta, forse, ma indicativa di quanto sia ormai consunta la pratica delle consultazioni, che giustamente nessuno si sognò a suo tempo di mettere nella Costituzione.

Dalla delegazione del Pd, che è pur sempre il partito maggiormente rappresentato in Parlamento, composta dal presidente Matteo Orfini, dal vice segretario Lorenzo Guerini e dai capigruppo parlamentari, dei quali era stato lasciato solo al senatore Luigi Zanda il compito di riferirne ai giornalistici, si era fatta sapere la completa remissione alle decisioni e alle valutazioni del capo dello Stato, preso atto soltanto della impraticabilità del governo di “responsabilità nazionale”. Che avrebbe dovuto essere composto praticamente da tutti o dai maggiori partiti per portare a termine regolarmente quel che resta della legislatura: un anno e poco più.

Caduta questa troppo ottimistica ipotesi, avanzata nella convinzione che facesse la fine che ha fatto, restava solo quella di un governo della stessa, o quasi, maggioranza uscente che porti il Paese “il più presto possibile” alle elezioni –aveva detto Zanda- dopo avere “armonizzato” –aveva poi spiegato il presidente della Repubblica ai giornalisti a chiusura delle consultazioni- le due malandate leggi elettorali in vigore. Malandate, perché quella valida solo per la Camera è sotto la ghigliottina o le forbici della Corte Costituzionale, che se ne occuperà con la solita calma, il 24 gennaio, pur essendo pronto già da ottobre il verdetto, secondo indiscrezioni non smentite. La legge valida per il Senato è già stata sforbiciata dalla stessa Corte in modo tale che sarebbe sì applicabile ma, senza premio di maggioranza e liste odiosamente bloccate, per cui sarebbe destinata a produrre un’assemblea per niente omogenea a quella di Montecitorio. La maggioranza della Camera mancherebbe all’altra, e viceversa. Sarebbe insomma ingovernabilità totale.

Ebbene, i signori della delegazione del Pd ricevuta da Mattarella avevano assicurato i giornalisti, prendendoci per broccoli, di non avere proposto nome alcuno a Mattarella per l’incarico di presidente del Consiglio. Quello di Gentiloni, pertanto, presente nei titoli di tutti i giornali, e di cui poi Luigi Zanda aveva accettato di parlare lungamente e cordialmente nel salotto televisivo di Lilli Gruber, ala 7, sarebbe nato dai e sotto i cavoli, come una volta si raccontava ai bambini il modo in cui fossero nati loro. Cosa assolutamente ridicola, diciamo pure penosa, che- ripeto- potrebbe bastare e avanzare per auspicare che arrivi prima o dopo un presidente della Repubblica dotato del coraggio e del buon senso necessario a risparmiarsi questa inutile e ormai folcloristica pratica delle consultazioni. Una pratica che dovrebbe mettere a disagio lui più ancora di noi, costretti per professione a scriverne, o il pubblico a sentirne parlare alla televisione e alla radio.

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Vengo finalmente all’omelia laica di Eugenio Scalfari, da cui Dio solo sa quante volte mi sia capitato di dissentire, specie ai tempi di Bettino Craxi, che lui smaniava di vedere cacciato dalle postazioni via via conquistate, come la segreteria del Psi e la guida del governo, o a quelli, peraltro contemporanei, di Ciriaco De Mita, che lui invece apprezzava moltissimo, prima di rimanerne –penso- deluso. Eppure, cari miei, da un bel po’ di tempo con le opinioni di Scalfari, al netto dei suoi colloqui con Papa Francesco, che egli conduce da un’altezza cui non ce la faccio ad arrivare, mi capita di convenire, qualche volta addirittura al cento per cento.

Ho votato sì come lui, per esempio, nel referendum sulla riforma costituzionale, pur non aspettando l’annuncio e le motivazioni di Romano Prodi, ch’egli ha invece indicato come quelle decisive a convincerlo, anche se mi era parso di capire che fosse stato Scalfari a precedere l’ex presidente del Consiglio e non viceversa. E come lui non condivido la fretta con la quale, fatto il doveroso gesto di dimettersi dopo la sonora sconfitta referendaria, Renzi si sia messo davvero a fare gli scatoloni a Palazzo Chigi per trascolare e restare solo segretario del Pd, occupandosi del partito a tempo pieno, sino a predisporne il congresso anticipato, a ridosso di elezioni altrettanto anticipate cui dovrebbe provvedere il capo dello Stato con un altro governo.

Temo che gli scatoloni del trasloco di Renzi, che si è appena vantato di stare personalmente ricevendo nella sua casa toscana, non facciano la fine di quelli del 2013 al Quirinale, dove Giorgio Napolitano li fece per esaurimento del suo mandato e fu costretto a disfarli per una rielezione imposta dall’incapacità del Parlamento di trovargli un successore in quel momento. Invece dovrebbe accadere lo stesso con gli scatoloni di Renzi, al quale Scalfari ha raccomandato di “studiare” il ruolo di “statista” che le circostanze interne e internazionali dovrebbero suggerirgli. Lo studio dovrebbe riguardare il modo in cui durante il Risorgimento fosse stato possibile comporre “lo spirito rivoluzionario di Garibaldi e la guida politica di Cavour”.

Con tutti i vertici internazionali alle porte, da quello europeo di marzo in Campidoglio al G7 di maggio a Taormina, e con tutte le partite da lui aperte a Bruxelles e a Berlino sui rapporti fra austerità e sviluppo, e ancor più su come spartire gli oneri dell’ormai biblico fenomeno dell’immigrazione, Scalfari ha giustamente per quanto inutilmente esortato Renzi a “portare a termine la legislatura”, come d’altronde avrebbe voluto anche Mattarella, e a “mantenere e accentuare il ruolo” assuntosi nel vecchio continente “con la Merkel e con Draghi”, il governatore fortunatamente italiano della Banca Centrale Europea

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Altro che lasciarsi paralizzare dalla curiosa corsa alla demagogia che Renzi ha ingaggiato con Beppe Grillo, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Renato Brunetta e simili su chi è più capace di staccarsi dalla poltrona. Altro che guardarsi alle spalle dalla giostra delle correnti, che si è trasferita pari pari dalla Dc della cosiddetta prima Repubblica al Pd della seconda, dove i comunisti, d’altronde unificatisi con i resti della sinistra democristiana, hanno preso, come aveva profetizzato l’indimenticabile Giulio Andreotti, “il peggio delle nostre abitudini”. Che era appunto il correntismo. Altro che la rincorsa fra l’anticipo del congresso e quello delle elezioni politiche. Ben altre avrebbero dovuto essere le urgenze avvertite da Renzi, politicamente ferito ma non ucciso dal referendum del 4 dicembre con quei 13 milioni di sì raccolti quasi da solo contro i 19 milioni di no che debbono spartirsi Grillo, Salvini, Meloni, Bersani, D’Alema, Vendola, Zagrebelsky, Ingroia e persino Travaglio.

So che Renzi, quando ne trova libero il telefono dalle conversazioni con Papa Francesco, si sente spesso con Scalfari, che ne ha riferito qualche volta compiacendosene. Presumo che lo abbia fatto anche in questi giorni. Doveva ascoltarlo, se non voleva dare retta a un tapino come me.


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