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La caduta di Berlusconi insegna: l’Italia non tema le urne e lo spread

Silvio Berlusconi

Ora che tutto il mondo finanziario pare preoccuparsi delle sorti dell’Italia dopo il 4 dicembre 2016, sarebbe utile rispondere a questa domanda: sono tutti noti i motivi della caduta dell’esecutivo di Silvio Berlusconi? La nuova fiammata dello spread a quota 190 e le speculazioni che alcuni autorevoli giornali finanziari stanno facendo dell’esito del referendum costituzionale, riportano in auge quello che avvenne giusto cinque anni fa, quando proprio l’insostenibile pesantezza del differenziale di interesse tra Btp italiani e Bund tedeschi decretò la fine del governo del Cavaliere. Politici e addetti ai lavori concordano nel negare che possa accadere di nuovo. A maggiore ragione è importante capire perché invece ciò sia avvenuto nel recente passato.

Senza voler approfondire i motivi che ancora oggi dovrebbero far preoccupare l’attuale esecutivo di Matteo Renzi, visto che il costo del debito in questo momento è congelato dagli acquisti della Banca centrale europea ma non si sa cosa accadrà dopo la fine del Quantitative Easing e l’imminente aumento dei tassi d’interesse della Federal Reserve, per curiosità storica e giornalistica sarebbe finalmente il caso di ottenere chiarezza su un passaggio che ha segnato la storia recente della Repubblica.

È quindi utile riavvolgere il film dell’Italia in crisi, del paese anello debole di tutta l’Eurozona, proprio perché ormai tutti sanno che così non è. Come detto, è il novembre del 2011, l’esecutivo guidato dall’uomo delle televisioni ha da poco portato a casa con soli 308 voti alla Camera (su una maggioranza richiesta di 316) il Rendiconto generale dello Stato, ma viene da tre mesi drammatici, con lo spread appunto a quota 575, i mercati in subbuglio, la speculazione finanziaria alle porte di casa, minimamente placata dalla lettera-ultimatum della Bce del 5 agosto precedente, in cui si chiedeva all’Italia un cambio drastico di rotta per poter aprire l’ombrello salva-Btp.

In quel frangente, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è così costretto a vergare di suo pugno una nota ormai dimenticata, dopo aver consultato molti leader coinvolti dall’eurocrisi, da Obama a Sarkozy per finire col presidente tedesco, Wulff. Si tratta di una delle dichiarazioni più drammatiche e inusuali del novennato del Presidente Emerito. Insomma, un ‘unicum’: “Di fronte alla pressione dei mercati finanziari sui titoli del debito pubblico italiano, che ha oggi toccato livelli allarmanti, nella mia qualità di Capo dello Stato tengo a chiarire quanto segue, al fine di fugare ogni equivoco o incomprensione: non esiste alcuna incertezza sulla scelta del Presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi di rassegnare le dimissioni del governo da lui presieduto. Tale decisione – scrive Napolitano – diverrà operativa con l’approvazione in Parlamento della legge di stabilità per il 2012. Sono pertanto del tutto infondati i timori che possa determinarsi in Italia un prolungato periodo di inattività governativa e parlamentare”.

Perché Napolitano dovette ribadire pubblicamente le dimissioni imminenti del premier e rassicurare che l’Italia, un po’ come avviene oggi, che l’Italia non sarebbe rimasta senza governo? Di chi erano i timori che non se ne andasse? Di Angela Merkel, della Casa Bianca, delle banche d’affari o più modestamente della stessa maggioranza di centrodestra? C’era qualcosa di non detto che le ostacolava, nonostante lo scenario fosse molto problematico?

Quello che ormai si sa è che Berlusconi era titubante in quanto non era stato sfiduciato né dalle Camere né ufficialmente dalla sua coalizione che lo sosteneva e dunque il suo passo indietro non era obbligato dai regolamenti della democrazia parlamentare, bensì imposto dalla “tirannia dello spread” e dei corsi azionari in picchiata – compresi quelli della sua galassia – verso la svendita e il default finale. La situazione del Paese era quindi tale da giustificare ogni azione pur di uscire dalla palude.

D’altronde le crepe in Europa si erano aperte da tempo. I primi scricchiolii dell’euro si erano registrati già nel maggio del 2010, quando fu palese che la Grecia non sarebbe stata in grado di pagare i suoi debiti. La crisi dell’eurozona è nata allora, propagandosi poi come una pandemia ad altri Paesi quali l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e, in ultimo, l’Italia.

Quello che invece non si ricorda è che nei giorni torridi di luglio 2011 tra gli analisti e anche in Banca d’Italia, ci si cominciava a interrogare sulla politica rigorista portata avanti dalla Germania, la cui banca principale – la Deutsche Bank – aveva innestato la miccia della speculazione liberandosi di 7 miliardi di posizioni in Btp italiani. La conferma alle indiscrezioni a proposito dell’attacco che alcuni tra i più grandi hedge fund stavano preparando a danno dell’Italia, arrivò da un discorso top secret di Mario Draghi, che è rimasto inedito al grande pubblico. L’allora governatore della Banca d’Italia rivelò ad una ventina di banchieri, nel corso di un riservatissimo summit milanese, che la solidità dei titoli di stato italiani era in pericolo. Il banchiere centrale non sbagliava.

Gli istituti di credito tedeschi avevano già cominciato a liberarsi di titoli italiani facendone cadere le quotazioni e lievitare i rendimenti, ma anche altre operazioni di brokeraggio sulle assicurazioni delle petroliere avevano dimostrato lo stesso deflusso di risorse
dal Belpaese. Ne seguì una terribile crisi di fiducia, una fuga di capitali senza precedenti, la missiva ultimatum di agosto della Bce e della Banca d’Italia, resa pubblica con conseguenze nefaste, lo spread a quota 575, essendo stato fissato dal nuovo governatore, Ignazio Visco, a 600 il limite sostenibile per le casse pubbliche. Una congiura di eventi sui cui precedenti sta indagando da tempo la procura di Trani. Tutto questo fu il preludio delle dimissioni del Cavaliere, arrivate solo il 12 novembre del 2011. I punti oscuri però restano e non sono solo giudiziari, visto il coinvolgimento delle agenzie di rating.

Che Berlusconi sia uscito di scena perché sfiancato dalle inchieste che lo coinvolgevano e dall’implosione della sua maggioranza è fuor di dubbio. Probabilmente anche la Troika lo ha abbandonato come invece non ha fatto nel 2015 con la Grecia di Tsipras. Resta però senza risposta un interrogativo, che oggi torna attuale, a leggere i titoli roboanti di autorevoli giornali come Economist, Financial Times, Wall Street Journal, Handelsblatt, tutti schierati per il Si o per il No alle riforme di Matteo Renzi ma con torni da ultima spiaggia: hanno avuto in qualche modo un ruolo nel far cadere l’ultimo governo uscito dalle urne? Nel dubbio, proprio ora che si torna ai seggi, è meglio toglierli qualsiasi alibi e ribadire subito che l’Italia è un paese forte in grado di sopravvivere anche ad un referendum così lacerante.


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