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Perché non si può giochicchiare sull’euro dopo il referendum

bruxelles, euro, francia, Italia

Ed ora, che la festa è finita, tutti devono fare la loro parte. Assumersi le proprie responsabilità, per ricostruire un Paese che vira pericolosamente verso lo sbando. Chi inneggia al “populismo” o si trastulla con quelle parole d’ordine non ha capito nulla della crisi italiana. E della stessa crisi europea. Basti pensare alla Grecia di Tsipras. Voleva abbandonare l’euro. Inneggiava a una società autarchica. Con il ritorno a una dracma, per forza di cose, non più convertibile. Il vecchio rublo della non rimpianta esperienza sovietica. Un sogno, o meglio un incubo, durato lo spazio di un mattino. L’Italia, nonostante i suoi acciacchi, resta la seconda potenza industriale dell’Eurozona. Come possa sopravvivere con il semplice ricorso al salario di cittadinanza e all’abolizione di Equitalia – copyright di Di Maio – resta un mistero. O meglio la coda velenosa di una campagna elettorale da dimenticare.

Al Pd spetta, inevitabilmente, la prima mossa. E non solo perché è il partito di maggioranza relativa. La sconfitta nel referendum è anche figlia della crisi di quel partito. Un contenitore in cui si agitano le diverse anime politiche dai disparati e spesso contrapposti profili programmatici. Fare le “primarie” al di fuori di un contesto elettorale, fu un errore grave di cui Pierluigi Bersani porta, per intero, la responsabilità. Matteo Renzi divenne il segretario del partito quando i gruppi parlamentari erano da tempo costituiti. Sfrattò Enrico Letta da Palazzo Chigi, ma non ebbe mai il controllo pieno e consapevole della sua rappresentanza parlamentare. Certo: furono in molti – a partire dai “giovani turchi” – a salire sul carro del vincitore. Ma la pura alleanza di potere non è mai una risorsa destinata a durare nel tempo.

Si spiega così l’arroccamento del premier-segretario. Il circondarsi di un pugno di fedelissimi: la guardia pretoriana. E la sua battaglia contro tutti: contro la “ditta”, contro Grillo, contro Salvini e la Meloni. E il suo rapporto ambiguo con Silvio Berlusconi. Non a caso non inserito nel ritratto dell'”accozzaglia”, nel volantone fatto pervenire a casa di ciascun elettore. Mentre Verdini, con il suo piccolo gruppo al Senato, era il solo se non l’unico a garantire la maggioranza parlamentare, nei momenti più difficili. Questi nodi vanno ora sciolti. E’ necessario che all’interno del Pd nasca una maggioranza vera, fondata su una linea in grado di decidere quale politica delle alleanze perseguire. Si vuole insistere con Ncd? Va bene, ma non basta. Si vuole allargare verso il centro? Va bene. Ma bisogna deciderlo in modo trasparente, rinunciando a quella politica dei “due forni”, che porta solo a galleggiare. Se non al progressivo disfacimento degli equilibri finanziari del Paese.

Ma anche il centro destra deve decidere. Chi parla di elezioni immediate sottovaluta ancora una volta la crisi, non solo economica, ma politica dell’Italia. Le manipolazioni della legge elettorale, nel nome della “governabilità”, hanno mostrato tutto il loro limite. L’alta partecipazione popolare al referendum costituzionale dimostra che è finito il tempo della “delega in bianco”. Non basta più la figura carismatica di un leader: presunto o reale che sia. Occorre individuare una classe dirigente che sia all’altezza dei problemi del Paese. Che sappia rappresentare la complessità della situazione italiana. E solo dopo giungere all’indispensabile sintesi programmatica. E’ tempo quindi che alcune ambiguità siano sciolte. Chi vuole uscire dall’euro si faccia avanti. Lo stesso coraggio lo abbia chi ritiene questa strada impercorribile. Con l’Europa si abbia un rapporto duro, ma sereno. Vogliamo un Paese che cresca, non un Paese sovvenzionato dalla pelosa benevolenza altrui. E per ottenere questo risultato dobbiamo essere disposti a fare le cose che sono necessarie.

Questi sono, quindi, i temi posti sul tappeto. Implicano una scomposizione e una ricomposizione degli equilibri politici. Consapevoli del fatto che questo referendum non è stato vinto da nessuno. Ha fatto solo emergere un groviglio di problemi e un malessere profondo con cui fare i conti. E’ stato quel “momento della verità” per troppo tempo occultato dietro vacue parole d’ordine. Fughe in avanti – come sul tema degli immigrati – e inefficienze gestionali. Per non dire di peggio. Piccole furbizie che, alla fine, ci hanno lasciato con il cerino in mano. Mentre gli altri partner europei, a torto o ragione, chiudevano le frontiere. Certo non era semplice gestire una fase così complessa. Al di là del Tevere, Papa Francesco esercita il suo alto magistero. Le sue invocazioni all’umana solidarietà sono struggenti. Ma lo Stato italiano non può perdere la sua laicità. Non possiamo accogliere tutti. E’ necessario che quel grande afflato religioso abbia una dimensione ben più vasta. Che riguardi l’intera comunità internazionale: a partire dalle sedi – l’Onu – in cui problemi di questa dimensione possono essere affrontati.

Ecco allora i compiti per l’immediato. Ne trascuriamo volutamente quelli più contingenti. La loro dimensione è tale da impedire qualsiasi scorciatoia. La speranza è che le attuali forze politiche ne siano consapevoli e si regolino di conseguenza.



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