Abbiamo perso. Inutile girarci attorno, con perifrasi, giustificazionismi o sofismi. Un referendum, soprattutto di questa natura e portata – e con questa partecipazione popolare -, si vince o si perde. E noi lo abbiamo perso.
Questo è il primo dato, dal quale partire. Certo, non è l’unico e non è il solo. Ma occorre che ripartiamo da questo elemento, per comprendere cosa sia accaduto domenica dentro una grande affluenza ai seggi e dentro una percentuale finale di voti contrari alla riforma che non lascia dubbi interpretativi.
I dati di analisi, sulle motivazioni del voto, si stanno sprecando. Tutti convergono sull’eccessiva politicizzazione del voto, sulla sua personalizzazione, sulla forzatura delle tesi e sulla perfetta aderenza tra il messaggio referendario e il volto del governo e del Presidente del Consiglio che hanno trasformato il passaggio elettorale da conferma di una riforma costituzionale a collettivo voto di fiducia sull’esecutivo.
Occorre quindi ripartire da qui. Si è persa la connessione tra la maggioranza del popolo italiano e il governo. Le dimissioni di Renzi sono state quindi inevitabili, così come sarà inevitabile che si ritorni –secondo tempi e modalità che dovranno essere definite dal Presidente della Repubblica cui spetta per Costituzione (riconfermata elettoralmente anche nella funzione di assoluta centralità parlamentare) un ruolo totale di arbitro e garante- davanti al corpo elettorale.
Lungo questo percorso, dovremo a mio avviso compiere due riflessioni decisive. La prima riguarda la questione sociale. Abbiamo impiegato tutti questi anni all’insegna dell’ammodernamento delle istituzioni, partendo dal presupposto – ispirato da Unione Europea, grandi centrali mediatiche, scuole di pensiero – che attraverso la macchina delle istituzioni avremmo potuto intervenire sulla competitività del Paese, sulla sua modernizzazione e da essa sarebbero discese le risposte in termini di crescita, occupazione e sviluppo. Abbiamo ritenuto pertanto che la vicenda istituzionale fosse da sola il motore del cambiamento. Questa vicenda però ci dice che se è vero che la politica si incarna nelle istituzioni, al tempo stesso la politica non contiene tutto. Perché vi è una seconda, grandissima questione che ha condizionato in maniera evidente il voto nel momento in cui esso è stato trasformato in voto sul governo. Ed è la questione sociale e territoriale.
Fa molto riflettere – almeno me – il fatto che il Sì prevalga negli strati sociali e nei luoghi territoriali dove il benessere è avvertito: le fasce di reddito medio-alte, i centri delle aree metropolitane, le persone con istruzione elevata (e tendenzialmente con retribuzione allineata). Noi abbiamo perso perché in Italia si sta affermando la società dell’1/2. Abbiamo perso perché vi sono inclusi ed esclusi, garantiti e precari, protetti e abbandonati. E nel mezzo della società che vive o si percepisce escluso, vi sono categorie di insediamento un tempo storiche della Sinistra italiana: operai, disoccupati, persone a basso reddito, abitanti delle aree periferiche, giovani. Che hanno gonfiato le vele del No.
Deve far riflettere un dato. Nello stesso giorno sono andati al voto Italia e Austria. Oltre il Brennero, il candidato progressista, il 72enne alto borghese massone dichiarato Alexander Van der Bellen, ha sconfitto la destra populista grazie al voto decisivo di giovani e donne. Noi domenica, arrivati al voto all’insegna del giovanilismo e della riforma verso il futuro, abbiamo preso solo il 19% dei voti della fascia d’età compresa tra i 18 e i 34 anni, o se vogliamo dirla in maniera più cruda l’81% dei giovani ha votato No!
Dobbiamo quindi riflettere a fondo, senza tatticismi, furbizie o isterie, su quello che è accaduto.
Vi è un secondo dato, altrettanto oggettivo. Dentro la sconfitta, una consistente fetta di elettori italiani –ancorchè non maggioritaria- ha deciso di dare fiducia alla nostra proposta. Lo ha fatto soprattutto nelle Regioni del nord, nelle quali –come dimostrano i dati diffusi dall’istituto Cattaneo- è stato rilevante lo scarto positivo tra i dati governativi raccolti nelle Europee del 2014 e il referendum.
Quindi abbiamo sì perso, ma abbiamo contemporaneamente aumentato la platea dei consensi. Un dato su cui riflettere, per non farsi cogliere da inutili (anche se comprensibili) scoramenti che fanno perdere di vista l’entità del fenomeno.
Noi democratici dobbiamo quindi, inevitabilmente, ripartire da qui. Senza eludere, a mio avviso, alcuni nodi di fondo che –se irrisolti- si ripresenteranno inevitabilmente con il loro conto.
Il primo nodo, l’ho detto in precedenza e non vi ritorno, è l’esigenza di una ripresa capacità di governare le questioni sociali e territoriali del nostro Paese. Molto è stato fatto, ma evidentemente ancora non basta.
Il secondo nodo è quello istituzionale. Dobbiamo prendere atto che dietro al voto degli Italiani di domenica vi è al tempo stesso una carica di rabbia antisistema (che dovrebbe far riflettere chi oggi improvvidamente pensa di porsi alla testa della tigre pensando che questa la conduca al potere senza conseguenze), ma anche una domanda alla politica di maggiore capacità di ascolto, attenzione e sintesi che si traduca non in ostentazioni muscolari o operazioni maquillage, ma in istituzioni che ascoltano e poi fanno sintesi anziché calare verticalmente le decisioni dall’alto. In questo, la necessaria e indispensabile riforma della legge elettorale (appare evidente, come ha ricordato Mattarella, che non si possa tornare al voto con due leggi differenti di cui una in pendenza di giudizio di costituzionalità per due rami del Parlamento che continueranno a fare lo stesso mestiere ed avere lo stesso potere) deve andare a mio avviso nel senso della capacità del sistema istituzionale di attutire gli urti, anziché enfatizzarli.
Il terzo nodo è quello politico. Esterno e interno al Pd. Sul piano esterno, le dimissioni di Renzi sanciscono la crisi dell’area di governo sin qui conosciuta. E quindi appare chiaro che le prossime ore dovranno incaricarsi di dare la risposta alla domanda su quale sia il presupposto politico sul quale costruire una nuova proposta di governo che porti il Paese al voto senza avventurismi e nel quadro delle responsabilità internazionali che l’Italia ha assunto. Sul piano interno, ritengo indispensabile un’anticipazione del congresso e una sua celebrazione non come rito mediatico, ma come reale riflessione sulla natura, l’identità e la prospettiva del Pd. Abbiamo assistito ad una scena molto triste, domenica sera. Sul televisore scorrevano le immagini del Presidente del Consiglio e segretario del partito che si dimetteva, e in un riquadro una parte del partito stappava le bottiglie e festeggiava. Se vogliamo ripartire come comunità politica, non possiamo far finta di nulla, e che tutto finisca a tarallucci e vino. Non lo dico in termini stupidamente vendicativi. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che una Notte di San Bartolomeo dove si risolvano in maniera cruenta le vicende del confronto interno. Ma lo dico in maniera politica, perché le ragioni della condivisioni di un percorso sono intimamente legate alla condivisione di un progetto, che oggi non vi è stato nella vicenda più rilevante e qualificante non solo della legislatura, ma dell’intera esperienza della sinistra italiana al governo della Repubblica.
Solo così sapremo e potremo ripartire, e fare di una sconfitta la premessa di una successiva vittoria.