Un governo fotocopia, che però non sarà lo stesso governo. L’esecutivo di Paolo Gentiloni all’80 per cento presenta gli stessi ministri della squadra di Matteo Renzi, ma è il tono a essere diverso: non sarà più il dream team dell’ottimismo, di quelli che “va sempre tutto bene”. Lo si è visto nelle poche parole pronunciate dal nuovo premier alla lettura della lista. Gentiloni ha parlato di “porre attenzione al disagio presente nel Paese”, soprattutto “a quello presente nel Mezzogiorno”. Insomma, non è più l’esecutivo je-je cui ci aveva abituato l’ex sindaco di Firenze. E il nuovo presidente del Consiglio (che ieri sera ha giurato con tutta la squadra al Quirinale, mentre tra martedì e mercoledì chiederà la fiducia in Parlamento) sembra così andare incontro alle critiche mosse dalla minoranza Pd nell’ultima direzione.
Per quanto riguarda la squadra, invece, c’è lo spostamento significativo di Angelino Alfano dal Viminale alla Farnesina, lasciata libera dallo stesso Gentiloni. Questo passaggio non scontato vede però la sconfitta di Luca Lotti, il potente braccio destro di Renzi, di cui si era parlato per il Viminale. Lotti, infatti, ambiva ad avere la delega ai Servizi segreti, ma, diventando ministro dello Sport, dicastero creato ad hoc per fargli spazio nell’esecutivo, non ha centrato l’obbiettivo. Troppo giovane per andare al Viminale, è stata l’idea condivisa da Gentiloni e dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A Lotti, però, resteranno deleghe rilevanti come l’editoria e il Cipe. Al Viminale va invece Marco Minniti. Minniti di fatto negli scorsi mesi ha frenato sulla nomina di Marco Carrai a responsabile della cyber security. La delega ai Servizi va al premier Gentiloni.
Nella squadra si è dovuto poi trovare un posto per Maria Elena Boschi, ovvero la principale vittima, oltre a Renzi, della sconfitta referendaria. “Meb”, come la chiamano i colleghi. Boschi diventa sottosegretario unico alla presidenza del Consiglio, in pratica una sorta di vicepremier, suscitando le ire e le ironie delle opposizioni, ma anche di un pezzo di Pd. Insomma, come ha scritto ieri Repubblica in un perfido box commentoso non firmato, se discontinuità ci doveva essere, la Boschi doveva essere sacrificata. Un pezzo del suo ex dicastero, intanto, se l’è preso Anna Finocchiaro, una delle poche new entry, diventata ministro dei Rapporti con il Parlamento. Quasi un premio al suo impegno sulla riforma costituzionale e alla sua fedeltà al giglio magico, di cui però non fa parte. L’unica bocciatura eccellente è quella di Stefania Giannini: al suo posto al ministero dell’Istruzione va Valeria Fedeli, ex sindacalista della Cgil diventata pasionaria renziana a Palazzo Madama. Le altre uscite previste, invece, non ci sono state: Marianna Madia, Gianluca Galletti, Beatrice Lorenzin e Giuliano Poletti restano ai loro posti. Chi è soddisfatta è anche la Madia, da tempo sulla graticola per la sua riforma della PA e della dirigenza pubblica, che aveva sollevato la rivolta dei grand commis di Stato e incassato la bocciatura della Corte costituzionale. Ora sarà interessante vedere se quella legge continuerà il suo cammino o si arenerà nei meandri del Parlamento. New entry anche Claudio De Vincenti, che passa da sottosegretario alla presidenza a ministro per la Coesione sociale e il Sud.
Ora naturalmente bisognerà attendere il completamento delle caselle con viceministri e sottosegretari. Ma la maggioranza di Matteo Renzi ha perso già un pezzo: Ala (18 senatori e 16 deputati) non voterà la fiducia al governo. Lo hanno resto noto in un comunicato congiunto – proprio mentre il premier incaricato era a colloquio con Mattarella – Denis Verdini e ed Enrico Zanetti, che nell’esecutivo Renzi era viceministro dell’Economia per Scelta civica. Zanetti avrebbe voluto fare il salto in un dicastero. In alternativa la componente verdiniana rivendicava un ingresso nell’esecutivo con Marcello Pera o Giuliano Urbani. Gentiloni, però, è stato irremovibile.
Il suo governo, dunque, nasce numericamente più debole e al Senato, senza i verdiniani, la maggioranza ha un margine piuttosto stretto. Politicamente, però, per Gentiloni essersi liberato di un personaggio molto criticato come Verdini potrebbe essere un vantaggio politico non da poco. Anche nel quadro di uno sguardo nuovamente rivolto a sinistra e alla minoranza del Pd. La quale, da par suo, ha scelto di non entrare nella squadra di governo. “Voteremo i singoli provvedimenti volta per volta”, hanno precisato ieri durante la direzione.