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Assad riprende Aleppo e punta Idlib (dove i qaedisti sono il problema)

Giovedì scorso si è praticamente conclusa l’evacuazione della popolazione dell’ultima fetta di Aleppo Est rimasta in mano ai ribelli: il governo ha ripreso il pieno controllo della città con un prezzo umanitario altissimo, citato ancora una volta da Papa Francesco anche prima della benedizione hurbi et orbi natalizia. Alla fine, dai dati dell’ufficio dell’Onu che si occupa (anche) della crisi, gli evacuati sono stati oltre 88mila, molti spostati verso Idlib, città una sessantina di chilometri più a sudovest in mano ai ribelli (secondo i dati della Croce Rossa 34mila di 13 combattenti), altri in zone diverse sotto il controllo del governo.

LA NUOVA ALEPPO

Il sito Middle East Eye ha fatto un titolo esplicito e inquietante: “Welcome to Idlib, the next Aleppo”, e anche l’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura ha usato parole simili. È in effetti questa l’accoglienza per chi è fuggito dalle nevicate aleppine di questi due ultimi giorni (prima ce n’erano state altre, ma il termine era simbolico: cadevano bombe). Idlib sarà un fronte futuro, perché adesso il governo del rais Bashar el Assad si sente forte, anche se con ambizioni superiori alle proprie capacità. Lo spostamento dei ribelli evacuati verso Idlib potrebbe essere stata una strategia pianificata con il fine di ammassarli tutti in un punto e rendere più simmetrico il fronte: all’inizio della tregua che avrebbe dovuto avviare l’evacuazione di Aleppo, si era parlato di una doppia possibilità offerta ai ribelli, poi però è restata solo la via di Idlib, cancellando nella chiusura dell’intesta la possibilità per chi lasciava la città di andare a nord.

LA SVOLTA

A Idlib fa freddo, e si parla di condizioni disordinate che hanno accolto i profughi, in molti non hanno riparo. Uno dei combattenti laico-moderati sfollati, contattato da Ben Hubbard del New York Times, dice chiaramente che forse smetterà di combattere: “Ho perso le motivazioni” – titolo del pezzo del Nyt esplicito come sopra, “Punto di svolta in Siria, Assad riconquista Aleppo” e con “svolta”, si intende vittoria. De Mistura sostiene che senza un accordo il rischio è che Idlib finisca in un modo ancora peggiore: peserebbe la stanchezza, i rancori, lo sfinimento, Idlib è sull’asse Damasco-Aleppo e soprattutto da lì sono partiti attacchi verso Hmeimim, la base nei pressi di Latakia che da ottobre è diventata una postazione russa a tutti gli effetti (e non più solo un punto di appoggio momentaneo). Ma al momento un accordo per porre fine alla guerra non c’è: c’è una linea guida dettata da un’intesa tra Russia, Iran e Turchia. Però la nuova troika-siriana può avere capacità di chiudere situazioni puntuali come quella di Aleppo, dove ha operato – con difficoltà – per dirigere l’evacuazione, ma non è chiaro quanto potere complessivo porti in dote. Soprattutto perché Idlib è in mano a gruppi armati fortemente radicali, jidisti o salafiti.

IL GUAIO JIHADISTA

L’area di Idlib, e quella ancora più a sud di Jaish al Suqur, sono controllate da forze militari ribelli dove il peso della fazione jihadista Jabhat Fateh al Sham è molto elevato (JFS è il nuovo nome della qaedista al Nusra, solo che in pochi credono che questo rebrand si sia portato dietro un arrangiamento ideologico verso posizioni più moderate). Dal marzo 2015 due villaggi della zona, Foua e Kefraya, sono circondati dalle milizie ribelli: i circa 12mila abitanti complessivi vivono assediati in condizioni analoghe a quelle di Aleppo, solo che sono sciiti e ad affamarli sono i ribelli sunniti. Questa settimana la CNN ha raccolto alcune testimonianze della popolazione di di Foua e Kefraya che ora sta arrivando in altre aree sotto il controllo del governo, perché quest’evacuazione è stata scambiata nel piano di tregua per Aleppo: le condizioni di vita imposte dall’assedio degli anti-Assad erano pessime, ma la rete americana non è in grado di confermare la bontà delle immagini che gli sono state inviate – al solito, la guerra di propaganda potrebbe aver alterato la realtà. Però l’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite ha segnalato che la gran parte dei terreni agricoli della zona erano diventati inaccessibili, perché i cecchini di JFS appostati intorno sparavano a chiunque si avvicinasse e altre organizzazioni indipendenti hanno denunciato che le città erano state prese a colpi di mortaio indiscriminatamente. Mancavano cibo, medicinali, carburante per scaldarsi: un revival in pasta-ribelle di quello che i governativi hanno fatto ad Aleppo, insomma. La scorsa settimana alcuni bus che dovevano provvedere all’evacuazione dei due villaggi sciiti sono stati bruciati: si è trattato di un colpo di coda autolesionista dei ribelli. JFS è molto forte, ha molti proseliti combattenti che gli hanno permesso di prendere territorio e armi negli anni passati: i gruppi ribelli che combattono per rovesciare il regime oppressivo di Assad in molte occasioni si sono dovuti alleare con gli ex qaedisti per necessità, perché non ricevevano aiuti dall’esterno e perché loro conducevano una battaglia che manteneva un minimo di spirito nazionalistico dietro alle posizioni jihadiste, a differenza per esempio di quello che fa e ha fatto l’IS, dove l’ideologia califfale non è interessata al popolo siriano in sé, ma come sudditi. JFS adesso è un grosso intralcio però, perché permette e permetterà ad Idlib di trasformare la battaglia di riconquista in un’operazione narrativa di anti-terrorismo su cui Russia, Iran e Siria potranno spingersi liberamente, e su cui forse anche gli Stati Uniti di Donald Trump potrebbero non provare troppi imbarazzi – giovedì il vice ministro degli Esteri russo Gennady Gatilov ha detto alla Interfax che con Trump sono già aperti i contatti e che con lui di Siria si parla meglio che con Barack Obama.



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