Il referendum costituzionale ha sancito il rigetto del cambiamento della costituzione; in maniera netta. Significa che gli italiani non vogliono in alcun modo cambiare la costituzione? Significa che hanno votato a favore di Grillo, Salvini, Berlusconi, Meloni e che sono pronti a farlo esplicitamente alle prossime elezioni politiche? Significa che sono contrari al processo d’integrazione europea e ai suoi simboli (uno dei pochi tratti unificanti dei sostenitori ufficiali del NO)?
Siamo arrivati al voto a causa di un’analisi sbagliata. E sbagliare oggi l’analisi del voto sarebbe un errore ancora più fatale per il paese e per l’intero processo d’integrazione europea, del quale – ci piaccia o no – siamo parte integrante, per come è oggi e soprattutto per come diventerà nel futuro prossimo.
Nessuno possiede la palla di cristallo (sia sulle motivazioni del voto, sia sugli scenari attuali e futuri) e la questione è ovviamente complessa, ma proviamo ad azzardare qualche riflessione.
(Fonte immagine: Repubblica.it)
Ci sono tante componenti in quel NO. Ci sono quegli 11 milioni di italiani che nel 2015 hanno rinunciato a curarsi per i costi divenuti troppo elevati della sanità pubblica (CENSIS, 50° Rapporto sulla situazione sociale del paese); in un sistema dove la sanità teoricamente è assicurata dallo Stato, e per la quale a chi lavora vengono detratti contributi per il suo sostentamento. Ci sono le vittime della precarizzazione del lavoro, che non vedono prospettive per il futuro, proprio e dei propri figli. Ci sono quelli che volevano regolare i conti con Renzi, dopo essere stati rottamati. Ci sono quelli che non hanno idea di cosa ci fosse scritto nella costituzione ma che volevano mandare a casa il Presidente del Consiglio, a prescindere. E ci sono quelli che invece la riforma l’avevano letta, e che proprio per questo temevano che accentrare il potere nelle mani del governo togliendolo al Parlamento potesse, nelle mani sbagliate, portare ad una pericolosa deriva autoritaria. Ci sono quelli che non si sentono più rappresentati da una sinistra che percepiscono sempre più distante dai loro interessi, e che invece difende interessi che competerebbero ad altre forze politiche; una sinistra nella quale fanno fatica a riconoscersi. Ci sono ovviamente anche quelli che tradizionalmente sbraitano contro l’euro e l’Unione Europea, illudendosi che in un mondo interdipendente e complesso come quello in cui oggi viviamo, promuovere scorciatoie di uscita da entrambi possa riscattare il loro futuro. Ma ci sono anche quelli che credono fermamente nell’Europa e che si sono stancati delle continue ambiguità di Renzi, che un giorno porta Holland e la Merkel a Ventotene e il giorno dopo fa sparire la bandiera dell’Unione Europea, tanto da far sorgere il dubbio che non vi fosse alcuna idea di Europa, e che l’unico interesse fosse mantenere il potere, aggrappandosi ad un elettorato più vasto possibile.
Così come nel fronte del SI ci sono quelli che volevano cambiare la costituzione per premiare la stabilità politica, che apparentemente non riusciamo a trovare attraverso la legge elettorale. Quelli che votavano per Renzi nel timore di perdere posizioni di favore. Quelli che erano davvero convinti di ridurre il costo della politica con l’abolizione di gran parte dei senatori e del CNEL. Quelli che temevano l’armageddon del giorno dopo.
Il peggiore scenario possibile oggi è che si compia l’ennesimo errore di prospettiva. Che si attribuisca la sconfitta a fattori solo marginalmente rilevanti e che si perdano di vista i motivi profondi. Questo NO non può essere letto come un voto (solo) populista. È (anche) il voto di chi è preoccupato della deriva populista che sta attraversando l’intero arco politico, dalla cosiddetta “sinistra” all’estrema destra; che si é spaventato del populismo di Renzi, oltre che di quello di Grillo, Salvini & Co.
Disaggregare questi variegati segmenti della società e diverse sensibilità sociali riaggregandoli sotto etichette politiche è non solo difficile e sbagliato; ma è profondamente pericoloso.
Significa trasformare un voto referendario in un voto sulle appartenenze di partito, il che è palesemente falso. Occorre invece capirne appieno le ragioni politiche più profonde, perché altrimenti, alle prossime elezioni politiche, sarà davvero difficile arginare le compagini conservatrici e populiste.
Il discorso di addio di Renzi è stato di grande dignità. Si è assunto le responsabilità che gli competevano. E si è quindi, giustamente, dimesso da Presidente del Consiglio. Ma in quanto segretario del partito di maggioranza relativa ha ancora la responsabilità di farsi carico di come uscire da questa situazione, nella quale peraltro ci ha messo proprio lui, in qualità di Presidente del Consiglio. E ci aspettiamo che, a queste responsabilità, non abdichi travolto dalla delusione o, peggio, da risentimenti personali. Spetta al PD, e quindi in primis al suo segretario, assicurare al Presidente della Repubblica la massima disponibilità a rimettere in piedi un governo in grado di cambiare la legge elettorale, per garantire rappresentatività e stabilità al paese; e soprattutto ad attivarsi con urgenza per riprendere il cammino dell’integrazione europea. Quello originario, fondato su un grande e faticoso progetto di democrazia sovranazionale, non quello che è diventato oggi: un luogo di incontro di governi che si guardano impotenti di fronte ai grandi cambiamenti della storia e di fronte alle domande pressanti di 500 milioni di cittadini, ciascuno preoccupato solo degli equilibri di potere che permettano di rivincere le elezioni in casa propria.
Per fortuna, dall’Austria spira oggi un vento meno gelido di quanto ci si potesse aspettare. L’elettorato ha scelto in via definitiva il verde, europeista e ragionevole Van der Bellen a Presidente della Repubblica Austriaca. Hofer, per adesso, è sconfitto. Il rischio di una deriva antieuropea di un paese all’interno della zona euro, per ora, è allontanato. Intanto godiamoci questo piccolo ma importante risultato e confidiamo nel senso di responsabilità delle nostre istituzioni per il rilancio del paese e del processo d’integrazione europea; che ha bisogno di un deciso cambio di rotta.