In questi giorni, la cronaca politica si è incaricata di mostrarci il ritorno di alcuni aspetti deteriori della Prima Repubblica: i vecchi riti, le consultazioni, le manovre dei partiti, il lavorio alle spalle dell’opinione pubblica, e così via. Speriamo che – prima o poi – possa tornare alla luce anche il meglio di quella stagione: con, tra tante contraddizioni, pure la presenza di numerose figure qualificate, capaci di “visione”, di analisi, di letture complesse.
Ne è un esempio il bel saggio di Italico Santoro, pubblicato da qualche settimana da Mondadori Università. Santoro (oggi tra gli animatori della Fondazione Spadolini) è stato nel corso dei decenni deputato del PRI, condirettore de “La voce repubblicana”, parlamentare attento all’economia e alla politica internazionale, e insieme analista per “Nord e Sud”, “Il Mondo” e “Nuova Antologia”.
Il libro ha l’approccio giusto, e quindi più che mai fuori moda in tempi di tweet e slides: affronta la complessità dell’attuale politica internazionale, delinea scenari, non pretende di risolvere tutto con slogan e formulette precostituite, rifiuta la “spiegazione semplice” a tutti i costi.
Il punto di partenza del ragionamento di Santoro sta in cinque dati di fatto:
- la fine dell’equilibrio scaturito da Yalta, e l’inizio di una lunga e incerta fase di passaggio;
- la transizione ad una fase di nuova competizione e di dinamismo incerto tra i maggiori players internazionali;
- il sottofondo sociale (nel nostro Occidente) rappresentato da un’immensa classe medio-bassa di “nuovi perdenti”, di lavoratori semiqualificati che si sono trovati (o, il che fa lo stesso per loro: che sono convinti di trovarsi) dalla parte “sbagliata” della globalizzazione;
- un Occidente originariamente fondato sul “government by discussion”, cioè sui principi democratici, che deve sempre più fare i conti, tutt’intorno, con i germi di un nuovo autoritarismo;
- un’Europa in crisi su tutti i fronti: crisi monetaria, crisi istituzionale, crisi di welfare, assenza di un orizzonte strategico.
- In particolare, Santoro insiste – a mio avviso, opportunamente – su un tasto: un ciclo della globalizzazione (a prescindere dai giudizi, dai gusti, dalle analisi di ciascuno) si è ormai compiuto, e siamo entrati in una inedita dinamica di “competition” tra stati-continente.
Su questa base, l’autore si dedica a una lunga sezione del volume che, separatamente, passa ai raggi x le singole situazioni e le singole aree geografiche e geopolitiche. Cito in ordine sparso:
- la Cina e il suo esperimento di capitalismo senza democrazia, di capitalismo autoritario, tra incertezze e rischi di “atterraggio ruvido” (un enorme ceto medio e medio-basso, specie rurale, non vede alcun miglioramento tangibile per sé e per le proprie famiglie), un espansionismo e un militarismo impressionanti, e una strategia di egemonia verso Africa e Sud America, oltre che più direttamente sul resto dell’Asia Orientale;
- la Russia e la riscoperta della sua natura eurasiatica, tra contraddizioni difficili da decifrare: da un lato la dimensione autoritaria e di “democrazia senza libertà” (il controllo putiniano degli apparati, la repressione degli oppositori, il legame con la Chiesa ortodossa); dall’altro gli evidentissimi fattori di debolezza (economia in crisi, demografia declinante); dall’altro ancora, in primo luogo grazie alle deficienze obamiane e occidentali, un rifiorito ruolo russo di player internazionale a tutto campo;
- e poi via via, altre aree solo apparentemente meno rilevanti, che saranno terreno di una crescente battaglia geostrategica: dal cantiere del Sud-Est asiatico al subcontinente indiano, fino a un “Sud” del mondo diviso tra Africa subsahariana e America Latina.
Fatte queste “radiografie” area per area, Santoro individua alcuni fattori di crisi e potenziali “faglie” che possono generare tensioni e conflitti:
- i contenziosi aperti dalla Cina con un numero impressionante di interlocutori, non solo asiatici;
- altre tensioni in Asia (si pensi solo alle diversissime situazioni legate al regime della Corea del Nord, al subcontinente indiano, oppure al Pakistan);
- la grande questione dei confini orientali dell’Europa, e le relative frizioni con la Russia;
- la polveriera islamista e il rischio del terrorismo, che troppi continuano a sottovalutare;
- le migrazioni di massa;
- l’instabilità finanziaria.
Nel lavoro di Santoro, però, non tutto ha contorni cupi e minacciosi. L’Occidente (a maggior ragione dopo un decennio di gravi errori) è certamente in una condizione critica, ma ha ancora carte rilevantissime da giocare:
- un uso intelligente del soft power, della diplomazia e del dialogo, per cercare di incoraggiare numerosi soggetti (emersi o emergenti) a collaborare con l’Occidente, anziché a schierarsi contro di noi;
- la leadership sul terreno economico, ma anche della tecnologia e della ricerca;
- in particolare, la capacità di far tesoro dei settori più innovativi e promettenti, dalla rivoluzione digitale alle scienze della vita e della complessità biologica, per fare due esempi diversisismi fra loro;
- l’hard power, con la Nato che è tuttora il soggetto militarmente più forte.
Dentro questa cornice, la posizione meno facile è quella dell’Europa. Qui Santoro ha mano particolarmente felice, a mio avviso, nell’andare contro il “politicamente corretto” e nel dire che le risposte tradizionali del tipo “ci vuole più Europa” sono oggi inservibili. Al contrario, ad avviso di Santoro, si può al massimo puntare su una confederazione europea leggera, che dia spazio verso il basso alle autonomie nazionali, e verso l’alto a una rinnovata “comunità di destino” occidentale e con gli Stati Uniti. Certo, a questo fine servirebbero leadership europee coraggiose, non miopi: il contrario delle attuali burocrazie e dei cultori dello status quo.