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Referendum, tutti i malpancisti nella Cgil per il No di Susanna Camusso alla riforma Renzi-Boschi

Di Bruno Guarini e Berardo Viola
Susanna Camusso

Lei ha diviso la giovinezza tra la passione per la vela, qualche ritrovo bohémien e l’impegno nella Fiom, per poi scalare uno a uno i gradini della gerarchia interna fino a installarsi al vertice del sindacato che fu di Lama e Di Vittorio. Lui si è fatto le ossa come chansonnier da crociera, poi ha spiccato il volo negli affari: Milano 2, le tv private, il Milan, fino al momento della “discesa in campo”, la grande avventura della politica.

Lei, Susanna Camusso, segretaria della Cgil, è quanto di più antropologicamente e culturalmente altro da Lui, Silvio Berlusconi, magnate dei media e statista pop, uno che “i comunisti” come Lei, se potesse, li confinerebbe volentieri in una delle sue ville in Sardegna a espiare tra canzoni di Apicella e soubrette scosciate, giusto contrappasso per quella loro aria plumbea che non ha mai potuto soffrire.

Eppure, dopo essersi guardati in cagnesco per anni, Silvio e Susanna hanno finito per ritrovarsi sotto lo stesso tetto, quello del No alla riforma costituzionale. E, come d’incanto, hanno scoperto di avere tanto in comune. Per esempio, erano tutti e due a favore di una profonda revisione della Carta, e tutti e due ci hanno ripensato quando il traguardo era ormai prossimo. Il Cavaliere e i suoi il ddl Boschi l’hanno votato tre volte in Parlamento prima che l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, da Berlusconi vissuta come un tradimento del patto del Nazareno, mettesse fine all’entente cordiale con Renzi.

Susanna Camusso e la Cgil il loro No l’hanno messo agli atti ad inizio settembre in un documento piuttosto tortuoso che, a dire il vero, non aveva il tono di una chiamata alle armi. Cautela per certi versi sorprendente quella del sindacato rosso, che in un passato recente – basti ricordare il referendum del 2006 e la campagna contro la riforma dell’allora arcinemico Silvio – aveva battagliato con ben altro vigore a difesa della Carta. Ma la sorpresa è durata poco, giusto il tempo che un dirigente in dissenso con la linea confederale (l’umbro Nicola Preiti, transfuga della categoria dei medici Cgil) rispolverasse un altro documento, quello con cui il congresso del 2014 aveva accompagnato la rielezione della Camusso. Abbiamo così appreso che la Cgil, appena due anni fa, chiedeva il superamento del bicameralismo paritario, un Senato delle Autonomie, una riforma della riforma del Titolo V che riequilibrasse il rapporto tra Regioni e Stato centrale a vantaggio di quest’ultimo, il “quorum mobile” per ridare smalto all’istituto un po’ appassito del referendum.

Tutto dimenticato, anche se non tutti hanno dimenticato. Il riferimento non è solo al comitato per il Sì, che sui social ha punzecchiato subito la Cgil, ma ad alcuni esponenti di rilievo della Cgil stessa, che non fanno mistero di pensarla in tutt’altro modo dalla Camusso. L’ultimo a venire allo scoperto è stato il segretario dei chimici Emilio Miceli, riformista di lungo corso che in un’intervista all’Unità ha liquidato senza troppi complimenti la “deriva autoritaria”, cavallo di battaglia del fronte del No contro la supposta inclinazione alla tirannide di Matteo Renzi. Prima di lui si era pronunciata a favore del Sì l’ex leader dei pensionati Carla Cantone, che ora guida la federazione dei pensionati europei. Ma in realtà la lista dei malpancisti è molto più lunga e comprende spezzoni importanti del sindacato, nelle categorie come sui territori. Ecco dunque un’altra affinità tra Camusso e Berlusconi: la presenza tra le loro truppe di una quinta colonna riformista che segue le sue convinzioni e non quelle dei vertici. Già, perché anche il Cavaliere è costretto a fare i conti con un drappello di parlamentari che si riconosce nelle posizioni dell’ex presidente del Senato Marcello Pera, favorevole al Sì e critico verso l’ex premier, accusato di aver sacrificato anche gli ultimi scampoli della rivoluzione liberale sull’altare dell’antirenzismo.

Che la battaglia referendaria rappresenti una sorta di stress test per i partiti, un fatto politico primario in grado di scomporre e ricomporre lungo linee nuove gli equilibri faticosamente consolidatisi negli anni della II Repubblica si è capito da tempo. Ma forse non si è riflettuto abbastanza sul riverbero che essa potrebbe avere sui principali attori della scena sociale.

Leggendo in controluce alcuni movimenti che si intravedono dietro le quinte – è il caso non solo del dissenso più o meno marcato emerso nella Cgil rispetto alla linea dettata da Susanna Camusso, ma anche di un certo fermento che si registra nell’ala “contrattualista” della Uil – viene da pensare infatti che all’indomani del voto qualcosa potrebbe cambiare pure nel sindacato.

Del resto un punto di coagulo per quanti vivono con disagio questa fase di ripiegamento crepuscolare delle confederazioni esiste già. A incarnarlo è la Fim di Marco Bentivogli, tra i leader sindacali senz’altro quello che più si è speso a favore del Sì, convinto assertore di una profonda riforma del sindacato che superi le ultime scorie delle ideologie novecentesche. Più che una nuova aggregazione, ipotesi che sconfina nella fantapolitica, sembra delinearsi un indirizzo modernizzatore trasversale ai tre sindacati.

Di contro sta una visione conservatrice, restia ad accettare l’innovazione sia nel campo del lavoro che in quello della politica, che non a caso ha trovato riparo sotto le insegne del No. Va da sé che il suo campione, già oggi ma ancor più in futuro se dopo l’uscita di scena di Susanna Camusso riuscisse a guadagnare posizioni nella corsa alla successione, è Maurizio Landini. Lo stesso Landini che per le ultime due settimane di campagna referendaria ha lanciato la sua Fiom in una sorta di mobilitazione permanente.

Molto dipenderà, nella configurazione di questi due “poli”, dagli sviluppi successivi alla firma del contratto dei metalmeccanici. I sindacati l’hanno portata avanti insieme e insieme hanno raggiunto l’accordo con Federmeccanica lo scorso fine settimana. Ma per Landini potrebbe essere difficile gestire le conseguenze del successo. Per rientrare in partita dopo aver osservato dalla finestra gli ultimi due rinnovi, il segretario della Fiom in pratica ha dovuto accettare tutto ciò che (sanità integrativa, previdenza complementare, produttività, formazione) negli anni scorsi aveva bollato come cedimento all’ideologia mercatista. Come biglietto da visita, per chi si è sempre presentato come un difensore dell’ortodossia veterosindacale, non è proprio il massimo. A rifletterci, la parabola di Landini non pare poi tanto diversa da quella di Camusso e Berlusconi: anche lui è pronto a sbarazzarsi del passato pur di strappare al presente un successo effimero. Più che un coppia, un trio. Anzi, un triangolo: il triangolo No.



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