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Referendum, perché la riforma costituzionale va nella direzione giusta

L’approvazione della riforma consente di avviare l’ammodernamento del nostro sistema costituzionale, di sperimentare pregi e difetti delle innovazioni approvate dal Parlamento, di procedere poi alle correzioni e agli aggiustamenti che emergessero come indispensabili o utili, e di cominciare a discutere delle altre riforme necessarie. Un voto negativo nel referendum, viceversa, produrrebbe l’aborto di un processo di rinnovamento istituzionale durato alcuni decenni, sancirebbe l’incapacità delle nostre istituzioni di fare i conti con la realtà del mondo che cambia, e ne aggraverebbe la crisi di credibilità internazionale e di legittimazione democratica interna. Bocciata la riforma, sarebbe per molti anni difficile rimettere in moto il processo di ammodernamento del sistema istituzionale (a partire dalla difficoltà di costringere il Senato e i senatori a una radicale ridefinizione delle loro prerogative e dei loro poteri). La recente riconquista dell’immagine di un Paese dotato di  visione  lunga,  capace di concepire, approvare e attuare riforme strutturali coraggiose, ne verrebbe compromessa.

La questione delle Regioni

Un quasi generale consenso vi era anche, da diversi anni, oltre che sulla necessità di superare il bicameralismo paritario e di dare al Senato un ruolo di rappresentanza delle istituzioni territoriali, anche  sulla  necessità di rimettere mani alla riforma del titolo V, approvata nel 2000/2001 da una maggioranza parlamentare risicata. Nel moto del pendolo che caratterizza spesso le tendenze delle opinioni pubbliche, il generale favore per l’autonomia regionale e locale e per il decentramento, e perfino per modelli federali, che aveva caratterizzato gli anni Ottanta e Novanta, ha fatto luogo oggi alla convinzione che occorra invece recuperare un maggiore spazio per una regolazione unitaria e per politiche pubbliche nazionali (spingendo verso l’altro polo del modello federale, quello ben indicato dal motto originale degli Usa E pluribus unum). Vi hanno concorso anche la modesta qualità del ceto politico regionale e i mediocri risultati ottenuti, o almeno percepiti, in termini di qualità delle politiche e dei servizi regionali: anche se, per vero, indagini più approfondite e rigorose, come quella condotta da alcune importanti ricerche di Astrid, hanno consentito di dimostrare che si tratta di percezioni giustificate solo con riferimento ad alcune realtà territoriali, ma non scientificamente fondate e dunque non corrette se generalizzate a tutte le Regioni. Ma vi hanno concorso anche alcuni dei cambiamenti di scenario ricordati all’inizio. Ne vorrei sottolineare in particolare tre.

Innanzitutto la globalizzazione, che ha ampliato a dismisura gli spazi territoriali nei quali collocare investimenti e iniziative imprenditoriali; e gli investitori e gli imprenditori globali considerano tra i fattori positivi, ai fini delle loro scelte, l’esistenza di sistemi regolatori e amministrativi uniformi e standardizzati e di procedimenti amministrativi semplici e rapidi. In secondo luogo, la deriva intergovernativa, seguita negli ultimi anni dalla costituzione materiale dell’Unione europea. Lo spostamento del fulcro delle decisioni sulle politiche pubbliche europee dalla Commissione al Consiglio europeo (sia pure con un crescente protagonismo del Parlamento), ha comportato, quasi inevitabilmente, l’assunzione da parte del governo nazionale – e di chi lo rappresenta in quella sede – da una parte del potere di rappresentare gli interessi di tutto il Paese, dall’altra del potere di impegnarne i comportamenti e le scelte politiche (indipendentemente dalla ripartizione costituzionale dalle competenze).

Infine, la crisi della finanza pubblica e la necessità, imposta da vincoli europei e dalla pressione dei mercati finanziari, di pesanti manovre di contenimento del fabbisogno e di riduzione del debito delle Pubbliche amministrazioni, che ha di fatto spinto allo svuotamento dell’autonomia finanziaria garantita alle Regioni e agli enti locali dal nuovo Titolo V e un inevitabile riaccentramento di competenze e di poteri, entrambi convalidati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in mancanza di strumenti alternativi di fiscal consolidation. Non vengono meno, tuttavia, le ragioni del decentramento e delle autonomie. La stessa economia della globalizzazione porta a considerare cruciale la capacità dei territori di creare le condizioni ambientali più favorevoli per l’attrazione di capitali e di finanziamenti, dunque per gli investimenti produttivi. La produttività totale dei fattori è in buona misura il prodotto della dotazione di infrastrutture, servizi, capitale umano, sicurezza, qualità della vita, che il territorio riesce ad assicurare agli insediamenti produttivi e a chi vi lavora. Non si tratta, dunque, di mettere la barra in direzione di un ritorno alla centralizzazione, dopo averla messa, con qualche incertezza e qualche incongruenza, verso il decentramento, l’autonomia dei territori e il modello federale, ma di trovare il giusto equilibrio fra uniformità e differenziazione, fra Stato e autonomie, come accade in tutti gli Stati moderni ben performanti, compresi gli Stati federali. L’equilibrio delineato dalla riforma oggi in discussione è marcatamente diverso da quello delineato dalla riforma del 2001, ma non è un ritorno alla Costituzione del 1948, né tanto meno al centralismo ottocentesco dello Statuto albertino.

Quello che ci attende

Bastano le innovazioni previste dalla riforma ad attrezzare la nostra democrazia a vincere le sfide e a fronteggiare le crisi del XXI secolo? Certamente no. Il lavoro di riforma dovrà continuare. Ma i passi che la riforma fa, vanno, nel loro complesso, nella direzione giusta. Anche per poter proseguire, era ed è giusto acquisirli e consolidarli nel testo della Costituzione, in modo da poter continuare il processo riformatore da un punto di par- tenza più avanzato. E in modo da evitare, viceversa, che un ennesimo fallimento o un ennesimo rinvio della riforma diffondano, tra gli italiani e nel mondo, la sindrome di un Paese incapace di ammodernare le sue istituzioni

Dall’introduzione al volume di Astrid Cambiare la Costituzione? Un dibattito fra i costituzionalisti sui pro e i contro della riforma. Per il testo completo cliccare qui


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