Alcune fonti hanno raccontato alla Reuters che dietro al lavorio di queste settimane tra Russia, Turchia e Iran c’è un piano di spartizione del territorio siriano in sfere di influenza ufficiose non meglio identificate. È una soluzione di cui si parla da tempo, ora diventa l’oggetto finale, futuro di una road map messa in piedi in queste settimane, anche perché metterebbe tutti più o meno d’accordo – perché tutti sarebbero sconfitti.
A cominciare dal presidente siriano Bashar el Assad, che vedrebbe venir meno il suo piano di riconquistare il paese “shibr shibr”, ossia pollice per pollice. Assad resterà in carica per un periodo di tempo limitato, traghetterà il paese fino alle prossime elezioni presidenziali (in teoria nel 2021) quando verrà sostituito da un altro candidato alawita meno polarizzante. Non ci sono nomi nel pezzo della Reuters, ma due sarebbero stati già indicati nel documento. Una supposizione per uno: potrebbe essere il direttore dell’intelligence siriana Ali Malouk, già negoziatore internazionale per conto del governo siriano, per esempio durante incontri discreti che si sono svolti a Mosca alla presenza di Messi diplomatici turchi e che con ogni probabilità hanno piazzato i paletti per costruire il futuro schema a tre a cui assistiamo.
Uno sciita alawita al potere salverà la faccia non solo di Assad ma anche dell’Iran, che avrebbe messo ben in chiaro che il prossimo presidente dovrà rappresentare la continuità confessionale con l’attuale. Teheran pare sia il più scettico sulla soluzione, ma sa che per rapporti di forze deve seguire le direttive degli altri due, pur avendo la possibilità di inserire clausole a proprio vantaggio. Un diritto guadagnato attraverso il valore degli indispensabili miliziani sciiti regionali mobilitati dagli ayatollah per dare sostegno al governo di Damasco: sono loro il vero esercito lealista, e per questo hanno un peso (e la capacità di far saltare gli schemi, come quando hanno preso a cannonate i primi profughi evacuati da Aleppo, perché gli ayatollah non avevano detto la loro sul primo accordo Turchia-Russia). La Repubblica islamica è quella che ha pagato il più alto prezzo in vite umane, con i morti (anche alti ufficiali) dei Guardiani mandati a consigliare le milizie, e dunque deve ottenere qualcosa in cambio: nel maggio del 2017 si votano anche in Iran le presidenziali, e c’è la narrativa del regime da spingere; se il prossimo presidente siriano sarà alawita — nonostante siano una setta con una visione “più secolare” — la questione si venderebbe ai sudditi come un successo confessionale contro le monarchie sunnite che hanno sostenuto le opposizioni.
Se vincono gli sciiti perdono i sunniti, e tralasciando i paesi del Golfo, esclusi apparenti dai negoziati attuali, la Turchia molto radicale di Recep Tayyp Erdogan subisce un colpo. Accettare questo schema di spartizione significa accettare un periodo di transizione di Assad e un continuum più potabile del regime in intesa con la Russia: un anno fa tutto questo era impossibile, i russi erano nemici dichiarati (c’era la storia del Sukhoi abbattuto dai turchi) e Assad doveva andarsene prima di parlare di qualsiasi genere di futuro. Il ministro degli Esteri turco ha detto mercoledì che è “impossibile” inglobare il rais siriano nel processo di transizione, ma suona più come un piccolo refrain propagandistico per quelli che erano rimasti più indietro con le cronache. Ora Ankara è sulla linea di Mosca, e accetta anche la presenza di Assad pur di potersi creare una nicchia di influenza al nord siriano dove ri-dislocare i profughi attirati tutti questi anni, impedire le intrusioni dell’IS e bloccare il contagio statualista dei curdi siriani: luogo, il cuneo che dal confine turco va verso Al Bab e che spezza a metà il sognato Rojava curdo-siriano.
Contemporaneamente la Russia trova una soluzione per alleggerirsi dell’enorme peso militare, economico e soprattutto politico-internazionale del coinvolgimento nel conflitto: è un surrogato più vicino di tutti gli altri al concetto di vittori. Mosca è gravata dalla guerra in Siria, e un accordo di pacificazione potrebbe essere l’unico modo per alleggerirla. Abbasserebbe l’impegno e allo stesso tempo permetterebbe al Cremlino di vendersi come fulcro per la pacificazione di un conflitto che ha avuto conseguenze a livello globale – e farlo laddove Stati Uniti, Europa e Nazioni Unite non sono riuscite – e conseguentemente una riqualificazione a livello internazionale per il presidente russo Vladimir Putin, che contemporaneamente otterrebbe comunque due linee strategiche: la base navale di Tartus e quella area di Hmeimim, e un’influenza in aumento nella regione mediorientale, oltre che una partnership d’uso con la Turchia.
Il processo politico prenderà forma ad Astana, in Kazakistan, dove da metà gennaio iniziatenno nuovi negoziati in cui i punti stilati in una tregua attiva dalla mezzanotte di mercoledì diventeranno una risoluzione del conflitto. Ostacoli: lo Stato islamico rimarrà un fronte aperto, come lo sarà probabilmente quello di Idlib, città a sud di Aleppo controllata a maggioranza dai gruppi jihadisti. E poi i curdi siriani, che probabilmente non intenderanno fare passi indietro sulle aree liberate dall’occupazione dello Stato islamico e conquistate anche grazie agli americani – momentaneamente esclusi dai negoziati in corso.