C’è chi ancora si ostina a ragionare in termini di destra e sinistra. Come se avesse ancora un senso. Come se la sinistra fosse attenta ai bisogni delle fasce più deboli della popolazione; come se la destra fosse più sensibile alla salvaguardia di un’idea liberale e conservatrice delle relazioni economiche, sociali e politiche.
E poi ci si stupisce di fronte ad un voto (o ad intenzioni di voto) che non si riesce a comprendere.
La sinistra ha abdicato da tempo alla rivendicazione dei diritti sociali, per concentrarsi su rivendicazioni meno compromettenti a favore dei diritti civili (unioni di fatto, matrimoni gay, etc), che per la verità in uno stato appena normale e laico dovrebbero essere acquisite da tempo. Anzi, si è fatta paladina dello smantellamento di tutte le forme di protezione sociale faticosamente acquisite nel corso degli ultimi decenni. Preferendo sostituirle con forme velleitarie e populistiche di assistenza “ad elemosina” (vedasi gli ormai famosi “80 euro”). Ha smesso di investire (ma lo ha mai fatto?) nella formazione del capitale umano (scuola, università), nella creazione di una coscienza civica e critica dei cittadini, nelle infrastrutture collettive (trasporti, logistica, comunicazioni; non il Ponte sullo stretto di Messina).
La destra, a sua volta, ha smesso gli abiti liberali a tutela delle regole della concorrenza, della meritocrazia, della libertà; soprattutto da quando ha iniziato a chiamarsi “casa delle libertà” (ironia della sorte, o meglio, scelta molto azzeccata dal punto di vista della vuota ma efficace comunicazione politica).
La nuova linea di demarcazione politica non è più tra sinistra e destra. È tra chi ha capito ed intende sfruttare appieno la distanza esistente (e crescente) fra esercizio della sovranità ed esercizio del potere.
Oggi, a livello nazionale, è rimasta solo la gestione del potere: chi nominare alla Presidenza di Banche e Consigli di Amministrazione vari, a chi far gestire appalti, come spartire la ricchezza collettiva. L’esercizio della sovranità, ossia la capacità di fornire risposte ai bisogni dei cittadini, non è più possibile a livello nazionale in un mondo interdipendente. Ce lo mostrano le vecchie e nuove grandi potenze mondiali: Usa, Russia, Cina, Brasile, India. Tutte entità statali di dimensioni continentali e con forme costituzionali federali, per poter meglio tenere in piedi il compromesso (necessario a livello continentale) fra decentramento ed unità d’intenti strategica. Quello che dovrebbe diventare l’Unione Europea.
L’Europa è una grande scommessa. Probabilmente la più grande scommessa della storia umana, ben più grande e complessa della formazione degli Stati Uniti d’America: creare un sistema di democrazia multilivello a partire da sistemi nazionali storicamente consolidati. Un sistema nel quale i problemi siano affrontati al livello più efficace e vengano create istituzioni democratiche per le scelte collettive relative alla soddisfazione di bisogni collettivi.
E invece siamo in mezzo al guado. Tra una sponda sicura, che abbiamo abbandonato, quella delle sovranità nazionali, con limiti enormi ed incapacità di reggere il confronto con le grandi dinamiche della storia, ma che in qualche modo rispondeva ai bisogni dei cittadini; e quella della sovranità condivisa, della capacità di fornire risposte ai livelli in cui esse sono più efficaci; e che però ancora non c’è, che è rimasta un cantiere in costruzione, per giunta in abbandono.
Solo che a forza di stare in mezzo al guado, con l’acqua della crisi che sale da ormai troppi anni, si rischia di annegare.
Per questo motivo sono i partiti che evocano un recupero della sovranità a ricevere maggiori consensi; anche a sinistra, dove maggiore è l’esigenza di poteri pubblici che si occupino di soddisfare bisogni concreti ed urgenti: Front National in Francia, M5S e Lega in Italia, FPÖ in Austria, etc. Peccato che lo facciano tornando a guardare indietro, verso la sponda delle sovranità nazionali.
Sarò ottimista, ma non credo che i popoli siano diventati improvvisamente contrari all’Unione Europea in quanto progetto ambizioso da finire di realizzare. Ma sono stanchi di questa Unione Europea intergovernativa, che non ha coraggio di scegliere, che non risolve i problemi di nessuno, che insegue ammutolita le scadenze elettorali nei singoli paesi.
Questa è la contraddizione drammatica in cui oggi ci troviamo: quei partiti che denunciano, giustamente, la mancanza di sovranità vagheggiano il ritorno a quella nazionale; i partiti apparentemente pro-Europa non hanno ancora capito che questa Europa non può più andare da nessuna parte. O la si trasforma in una genuina democrazia multilivello, recuperando esercizio del potere ed esercizio della sovranità a ciascun livello dell’azione collettiva (da quello locale a quello sovranazionale); o è destinata alla morte, alla frammentazione, alla degenerazione in una semplice area di libero scambio.
I cittadini che vogliono un’Europa diversa, che sognano ancora quell’architettura istituzionale capace di dar loro le risposte che cercano, si trovano quindi stritolati tra due scelte drammatiche. Da un lato sostenere i partiti che appoggiano questa Europa, che dimostrano di non avere nessuna intenzione di farle fare il salto di qualità di cui abbiamo bisogno, che non difendono lo stato sociale, che sono lontani dalle esigenze della popolazione. Dall’altra, votare partiti che invece hanno capito benissimo l’urgenza di recuperare sovranità, ma che pensano di poterlo fare a livello nazionale in un mondo interdipendente: risollevando muri, innalzando dazi, chiudendo le porte a chi chiede aiuto, stampando soldi come se fossero volantini; e rituffandoci nell’incubo dei conflitti perenni fra gli Stati.
Delle due l’una: o i partiti nazionalisti smettono di predicare il nazionalismo statale e capiscono di dover predicare un nazionalismo europeo, modificando il loro messaggio e dando concretamente una mano a realizzare un’Europa capace di agire; oppure i partiti che reggono questa Europa intergovernativa si decidono a rinunciare ad esercitare il loro meschino e vuoto potere nazionale, per completare il disegno di democrazia sovranazionale, ridando così senso pieno alla sovranità che è stata tolta ai cittadini negli ultimi decenni.
Tertium non datur.