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Risoluzione Onu, come Obama e Trump bisticciano

Venerdì il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che condanna gli insediamenti israeliani nel West Bank e a Gerusalemme Est definendoli “flagrante violazione ai sensi del diritto internazionale”. A favore hanno votato 14 dei quindici membri, solo gli Stati Uniti si sono astenuti (è la prima volta che succede su qualcosa che riguarda Israele) “per difendere la soluzione a due Stati” ha detto l’ambasciatrice americana Samantha Power, sostenendo quella che è una posizione che ha accomunato le due Amministrazioni Obama. La risoluzione non è vincolante, e dal punto di vista pratico poco cambierà nella politica con cui Tel Aviv gestisce i settlement, ma è un duro colpo che porta Israele in una posizione più isolata sul processo di pace. Uno dei commenti più duri lo ha espresso il ministro israeliano dell’Energia Yuval Steinitz, falco del partito di governo Likud, che ha detto che il voto è una risoluzione diretta contro Israele, e che gli Stati Uniti hanno abbandonato “il loro unico alleato in Medio Oriente” – il governo israeliano ha ritirato gli ambasciatori da Nuova Zelanda e Senegal, due dei paesi che hanno sostenuto la risoluzione al CdS e Danny Danon, l’ambasciatore all’Onu, ha detto che si sarebbe aspetto che gli Stati Uniti, “il nostro principale alleato”, avesse “messo il veto a quella scandalosa risoluzione”.

In un atto di pressione straordinario quanto unico il presidente americano Donald Trump giovedì aveva chiesto pubblicamente al presidente Barack Obama di porre il veto contro una risoluzione delle Nazioni Unite che avrebbe bloccato la costruzione dei settlement. Secondo il New York Times c’era stato un contatto diretto tra funzionari del governo di Tel Aviv e membri del transition team presidenziale per un’azione di pressing, col sostegno dell’Aipac (la lobby israeliana in America), che però si è rivelata inutile. Mercoledì Trump, nel corso di una conversazione telefonica, aveva addirittura convinto il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi a ritirare temporaneamente la proposta di risoluzione. Sospesa la votazione giovedì, Malesia, Nuova Zelanda, Senegal e Venezuela, paesi membri temporanei nella rotazione biennale al Consiglio hanno riproposto il voto per venerdì, sfruttando le contingenze e la situazione di consenso convergente, hanno spiegato.

Trump ha espresso una linea completamente diversa da quella di Obama e molto più incline verso le posizioni israeliane. Un’immagine su tutte, la nomina di David Friedman come ambasciatore americano in Israele: un pro-settlement che vorrebbe spostare la sede diplomatica a Gerusalemme (questo significherebbe considerare la città esclusivamente israeliana, e sarebbe una decisione molto forte).

MESSAGI LATERALI

Due giorni fa un funzionario governativo ha fatto sapere la New York Times che l’intelligence israeliana aveva ricostruito i passaggi di armi americane, fornite all’esercito libanese, poi finite in mano al gruppo paramilitare sciita Hezbollah. Non è una novità assoluta, semmai è la conferma di un’investigazione che il dipartimento di Stato americano ha già avviato. Il partito/milizia è considerato un gruppo terroristico da Washington e gli israeliani ritengono che stia sfruttando il ruolo giocato durante il conflitto siriano, dove è il principale dei gruppi alleati all’asse russo-iraniano che sostiene il regime, sia per armarsi sia per ricevere ulteriore peso politico all’interno del Paese (gli israeliani pensano che alla fine tutto questo movimento possa portare gli Hez a un nuovo conflitto contro lo stato ebraico). Gli uomini di Hezbollah contribuiscono a tenere sicuri i confini del Libano dalle infiltrazioni del conflitto siriano, e questo è il punto di contatto tra esercito regolare, aiutato dagli Stati Uniti, e i paramilitari radicali sciiti – l’esercito libanese ha ufficialmente negato che le armi che fanno parte del piano di assistenza americano siano finite in mano ai miliziani del Partito di Dio. Israele sta già colpendo con costanza gli scambi d’armi che sfruttano il caos del conflitto siriano – e di solito arrivano dall’Iran – ora l’annuncio del funzionario serve anche a ricordare che per muoversi nella regione Washington ha bisogno di Tel Aviv, altrimenti, per esempio, finisce per fornire indirettamente armi a un gruppo che considera terroristi e che potrebbe usarle per sostenere il regime siriano, che gli Usa considerano nemico. È una specie di avviso: per continuare la nostra amicizia serve che cose come quella successa all’Onu non si ripetano.



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