Non tanto perché presi dalle drammatiche cronache berlinesi ma forse distratti solo dallo spacchettamento dei soliti regali natalizi, nelle redazioni dei giornaloni non si sono accorti dello schiaffone politico – se non lo vogliamo chiamare “golpe”, con le solite virgolette – che il ministro dei beni culturali Dario Franceschini ha dato al segretario del suo partito Matteo Renzi. Il quale ha probabilmente pagato il torto fattogli preferendo il conte Paolo Gentiloni Silverj, indicato personalmente dall’ex presidente del Consiglio al capo dello Stato Sergio Mattarella, per la guida del governo che dovrà gestire quel che resta di questa sfigatissima diciassettesima legislatura e portare gli italiani il più presto possibile alle urne. Cosa della quale, peraltro, il presidente della Repubblica è perfettamente consapevole, nonostante i tentativi degli specialisti, soliti anche loro, di attribuirgli chissà quali e quante resistenze.
Giusto per svegliare gli addormentati e richiamare alla vigilanza i distratti, trascrivo letteralmente il passaggio per me più significativo del discorso di auguri di Mattarella alle “autorità” salite al Quirinale per fargli gli auguri di Natale e Capodanno: “Ci troviamo nella fase conclusiva della legislatura, con un orizzonte di elezioni, per la verifica dell’allineamento del Parlamento rispetto agli orientamenti del corpo elettorale, nel momento in cui l’andamento della vita parlamentare ne determinerà le condizioni”.
Il cosiddetto “allineamento del Parlamento agli orientamenti del corpo elettorale” significa che nel referendum del 4 dicembre, col quale è stata vistosamente bocciata, con una ventina di punti di distacco, la riforma costituzionale non partorita dalla moglie dell’allora presidente del Consiglio Renzi ma dalla maggioranza qualificata delle Camere, quella cioè dei loro componenti, non dei soli votanti, come prescrive l’articolo 138 della stessa Costituzione, si è creato un vulnus nei rapporti fra il popolo e la sua rappresentanza istituzionale che non si può far finta di ignorare.
Scusatemi se sono troppo pratico per i gusti dei soliti illustrissimi costituzionalisti di scuola, ma “l’orizzonte di elezioni” significa politicamente che siamo ormai in campagna elettorale. Lo avvertono d’altronde tutti sentendo gli improperi che si scambiano partiti e movimenti ogni volta che i loro esponenti s’incontrano alla radio, in televisione, per strada, nei ristoranti, nei cessi pubblici: ovunque e comunque. E una campagna elettorale che per ragioni, direi, di igiene istituzionale, a dispetto di tutti gli appuntamenti che il governo di turno può avere, a livello interno e internazionale, meno dura e meglio è. O, come preferite, più dura e peggio è.
Questo lo sa bene anche Mattarella, e non solo il segretario del Pd, che è invece accusato di volere le elezioni il prima possibile solo per “vendetta”, come se fosse sicuro di vincerle: cosa di cui gli consiglierei invece di non essere per niente certo, visto come ha sbagliato le previsioni sul referendum costituzionale. Che ha non perso ma “straperso”, come lui stesso ha onestamente riconosciuto domenica scorsa davanti all’Assemblea nazionale del suo partito.
L’unica “condizione” che ha giustamente posto il capo dello Stato all’uso delle chiavi per chiudere la legislatura è la “omogeneizzazione”, altre volte chiamata “armonizzazione” delle norme assai diverse che oggi disciplinano l’elezione della Camera e del Senato: norme applicando le quali avremmo maggioranze altrettanto diverse nei due rami del Parlamento, con la conseguente ingovernabilità del Paese, a meno di non condannarlo a governi, come si dice, di larghe intese. Che quanto più sono larghe tanto più producono confusione, almeno da noi.
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Ecco, è proprio di fronte all’urgenza della nuova, ennesima riforma elettorale, questa volta augurabilmente destinata a durare non solo per qualche legislatura o stagione, che ha del clamoroso lo sgambetto politico fatto da Franceschini a Renzi.
Appartengono alla corrente del ministro dei beni culturali sia il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato sia il capogruppo, a sua volta, del Pd nella competente commissione di Montecitorio, Emanuele Fiano, che hanno voluto invece allungare il percorso della riforma elettorale.
D’intesa con Forza Italia, dichiaratamente interessata a mandarla per le lunghe, e con il movimento grillino, tanto smanioso a parole delle elezioni quanto interessato in realtà anch’esso ad allontanare il voto, visto il pantano in cui si trova in Campidoglio, i parlamentari del Pd hanno rinviato l’esame di una nuova legge elettorale a dopo il 24 gennaio, quando la Corte Costituzionale ha benignamente concesso agli italiani di pronunciarsi sul cosiddetto Italicum. Che è notoriamente la legge che disciplina dal 1° luglio scorso l’elezione della Camera, fortemente e incautamente voluta a suo tempo da Renzi, come da questo sito ci permettemmo di fargli osservare, sino a ricorrere al voto di fiducia per spuntarla sulle opposizioni e sulla dissidenza interna.
Quella dei tempi lunghi è una scelta tutta politica, solo pretestuosamente motivata con chissà quale ragione istituzionale o giuridica. Se alla Camera fosse stata affrontata subito la questione e incardinata una nuova legge, trattando i vari gruppi e partiti sul ritorno al cosiddetto Mattarellum, proposto da Renzi e applicato dal 1994 al 2005 a vantaggio sia del centrodestra sia del centrosinistra, la Corte Costituzionale si sarebbe potuta risparmiare anche la seduta del 24 gennaio. Come si risparmiò quella di ottobre, annullata all’ultimo momento e rinviata di ben tre mesi, per non interferire – si disse – nella campagna referendaria in corso sulla riforma costituzionale: campagna che coinvolgeva l’Italicum per quello che Pier Luigi Bersani chiamò assai polemicamente “combinato disposto” fra le modifiche alla Costituzione e la forte disciplina maggioritaria dell’elezione dei deputati.
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I tempi lunghi adottati a Montecitorio grazie agli uomini di Franceschini, immagino con quale soddisfazione da parte di Matteo Renzi quando è venuto a saperlo facendo la spesa al mercato vicino casa, hanno mandato in brodo di giuggiole Silvio Berlusconi, allegro e pimpante come mai al rinfresco offerto al Quirinale per gli auguri delle “autorità” a Mattarella e viceversa. Altissime sono state invece le proteste della Lega e del suo segretario Matteo Salvini, che pur di andare presto alle elezioni aveva aperto alla posizione di Renzi stabilendo un asse politicamente pericoloso, in particolare, per Berlusconi.
Col Mattarellum, o qualcosa che gli assomiglia, cioè col ritorno ai collegi uninominali, il potere contrattuale di Salvini con Berlusconi per la formazione di liste comuni di quello che fu il centrodestra aumenterebbe moltissimo, essendo ormai i due partiti quasi uguali per consistenza elettorale.
La situazione è ben rappresentata da queste parole appena attribuite al presidente di Forza Italia da Repubblica senza alcuna smentita, almeno sinora: “Il Mattarellum è l’opa di Savini e Meloni contro di me. Vogliono farmi fuori ancora una volta”.
L’opa, l’offerta cioè che si fa per acquistare azioni e prendersi la maggioranza di un’azienda, o di un gruppo, dev’essere l’incubo berlusconiano di questa fine d’anno, visto il tentativo ormai dichiarato dal suo ex amico francese Bollorè di soffiargli Mediaset con la sua Vivendì.