Venerdì prossimo 20 gennaio avrà luogo l’insediamento di Donald Trump quale quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Inizierà così la cosiddetta “era Trump” che si preannuncia, stando almeno alle dichiarazioni della vincente campagna elettorale, ricca di sorprese, rivoluzionaria e antitetica rispetto alla politica adottata dal presidente uscente Obama. Basti pensare in proposito alle dichiarazioni di Trump sulla protezione dei confini, sulla drastica riduzione dell’immigrazione, sulla obsolescenza di istituzioni sovranazionali quali Nato e Onu, sulla efficacia della Brexit e inefficacia delle politiche tedesche che hanno finora guidato l’Unione europea. Si tratta in sintesi di affermazioni incentrate tutte sulla spinta al nazionalismo a dispetto della politiche ad oggi prevalenti fondate sul “moloch” della globalizzazione.
Senza volere entrare nel merito del nuovo approccio americano e volendoci invece concentrare sulla ricetta economica in divenire, occorre registrare e dare atto, nel frattempo, che dall’elezione (9 novembre 2016) fino ad oggi la borsa americana è cresciuta del 9%; le grandi banche d’affari e gli investitori internazionali temevano e prevedevano uno shock sui mercati finanziari ipotizzando un ribasso di Wall Street anche del 10%, ma ciò non è avvenuto. Dal 9 novembre nelle prime 8 sedute la borsa americana ha inanellato 7 sedute al rialzo. L’indice S&P, che include centinaia di aziende, è salito del 2%, il Dow Jones Industriali, che ne include 30, è salito del 3% e il Russell, che raggruppa le piccole e medie imprese è salito del 10%. Esattamente il contrario delle previsioni. Sul fronte dei tassi d’interesse di mercato si riporta la loro salita non son solo negli Usa. Il Giappone ha abbandonato la politica dei tassi zero e i bund tedeschi ha visto accrescere i propri rendimenti . In questo scenario l’Italia potrebbe teoricamente essere travolta dal rialzo del costo del denaro, come avvenne nei primi anni dell’era Reagan, allorché il presidente diede mandato alla Fed di abbattere l’inflazione con l’aumento dei tassi. L’inflazione scese rapidamente, da oltre il 10% nel 1981 a meno del 4% nel 1983, perché Reagan appoggiò le severe politiche monetarie varate dal presidente della Federal Reserve Paul Volcker. Allora il rialzo dei tassi Usa diede il via all’aumento del debito italiano, ma stavolta la rete degli acquisti predisposta da Mario Draghi proteggerà almeno per tutto il 2017 il collocamento di Bot e Btp a tassi bassi. Con questo scenario il made in Italy potrebbe essere in grado di cogliere tutti i buoni frutti della svolta di Trump. A partire dalla rivalutazione del dollaro sull’euro, già salito in settimana ai massimi da 13 anni a questa parte, ma in rampa di lancio per nuovi rialzi, dopo che la Fed ha annunciato tre aumenti dei tassi per l’anno in corso. Il dollaro forte, secondo le previsioni, si tradurrà in buoni affari per l’Eurozona.
La politica economica annunciata dal Presidente eletto prevede consistenti sgravi fiscali per le imprese (dal 35 al 15% la tassa sulle società) e per i privati (aliquota massima del 33%) nonché forti investimenti nelle infrastrutture e nella difesa per stimolare l’ulteriore crescita degli Usa. Considerato però che l’economia americana è già vicina alla piena capacità, con un tasso di disoccupazione inferiore al 5%, sarà necessario far ricorso alle importazioni grazie alle quali l’Italia potrà avvantaggiarsene in quanto l’ effetto della svalutazione dell’euro è molto più forte in Italia che in Germania poiché quest’ultima esporta prevalentemente beni strumentali la cui domanda è più rigida rispetto all’andamento dei prezzi a differenza dell’ export italiano (tessile-abbigliamento, alimentari, arredamento) il quale, essendo meno impegnativo dal punto di vista economico, risente di più della concorrenza internazionale.
Inoltre la politica di apertura a Putin da parte di Trump con la fine delle sanzioni avrà effetti positivi sulla nostra economia visto che i nostri scambi con la Russia sono crollati e di conseguenza potranno solo risalire. La politica economica descritta ricorda molto quella adottata di Ronald Reagan negli anni 80. Egli ridusse il carico massimo di imposizione fiscale sul reddito dal 70% del 1980 al 28% del 1986 lasciando ai cittadini più reddito disponibile da destinare ai consumi, ma soprattutto fornendo loro maggiori incentivi per aumentare il numero delle ore lavorate e guadagnare di più. La riforma non fu un regalo ai ricchi, infatti nel 1980 solo il 5% più ricco dei contribuenti pagava il 35% del gettito totale dell’imposta sul reddito, nel 1990 quella percentuale era salita al 49%. Infatti la riduzione delle aliquote ha effetto soprattutto sull’elusione dei contribuenti ricchi la quale è tanto più conveniente quanto più alte sono le aliquote sopportate dal contribuente; ciò vuol dire che ad eludere sono più i ricchi che i poveri. Questa semplicissima riforma fiscale determinò un’espansione dell’economia pari al 25% in 72 mesi di crescita continua producendo il più lungo periodo di sviluppo economico mai realizzato nella storia degli Stati Uniti. Il gettito fiscale, nonostante l’abbattimento radicale delle aliquote non si ridusse, anzi grazie al rilancio dello sviluppo si incrementò del 26%. La politica reaganiana produsse interessanti effetti sull’Italia: fu l’ultima volta, infatti, che il nostro Paese registrò la più alta crescita del Pil in Europa. L’auspicio pertanto è che tutto ciò possa ripetersi.