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Beppe Grillo, Virginia Raggi e i dilettanti a contratto

Virginia Raggi, ROM

Ancora una volta la giustizia è arrivata prima della politica, questa volta per darle una botta che potrebbe esserle fatale, se in appello non dovesse essere smentita l’ordinanza del tribunale civile di Roma che, pur limitandosi a respingere il ricorso di un “terzo”, cioè di un estraneo, peraltro storpiandogli il nome da Venerando a Vagabondo, ha praticamente salvato per ora i curiosi contratti che Beppe Grillo fa firmare ai suoi candidati. I quali diventano “portavoce” una volta eletti, ad ogni livello.

Con il verdetto giudiziario accolto con comprensibile entusiasmo dai Travagli di turno, Virginia Raggi resta al suo posto, si spera per fare la sindaca di Roma meglio di quanto non le sia capitato sinora, senza far venire il cardiopalmo ai suoi stessi colleghi, ma soprattutto colleghe di movimento in pubblica sofferenza. Non resta invece al suo posto il buon senso di quei pochi che ancora si ostinano a credere che la politica sia o debba tornare ad essere una cosa seria.

Il cosiddetto vincolo di mandato escluso dall’articolo 67 della Costituzione è oggi aggirato nei fatti da Grillo con un contrattino che obbliga gli eletti a rispondere a lui, e non agli elettori, di ciò che fanno. Sennò potranno anche restare nei loro onorevoli posti, perché per fortuna il capo non si è ancora arrogato il diritto di farli decadere, ma dovranno in qualche modo pagargli una multa da 150 mila euro in su.

Pertanto i malcapitati potranno conservare l’autonomia garantita loro ancora dalla Costituzione, e da non poche leggi ordinarie e regolamenti parlamentari, statuti regionali e regolamenti consiliari, solo se saranno abbienti. In grado cioè di pagare a Grillo, o al suo movimento, le penali risarcitorie dei danni d’immagine e d’ogni altro tipo avvertiti dal capo. A meno che un giudice o tribunale, investito da una parte, diciamo così, direttamente in causa e resistente perciò all’azione, non trovi il coraggio, coi tempi che corrono, di darle ragione.

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Non più tardi di qualche giorno fa lo scrittore ed ex senatore piddino Gianrico Carofiglio, ospite di Lilli Gruber a la 7, con la sua esperienza di magistrato spiegava come e perché riteneva questo tipo grillino di contratto nullo, anzi illegale, senza essere smentito o comunque contestato dall’ospite in collegamento, solitamente schierato in difesa di Grillo: il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio.

Chi dissente dal giudice trovato da Grillo non a Berlino, come il mitico mugnaio Arnold di Postdam ai tempi di Federico il Grande, ma a Roma in questi tempi di Sergio Mattarella, non potrebbe neppure consolarsi pensando al giorno in cui Carofiglio dovesse rimettersi addosso la toga a applicare la legge a suo modo.

Il guaio è che Carofiglio, troppo rigoroso e coerente per i gusti correnti, si è dimesso da magistrato, anziché mettersi in aspettativa, come fanno abitualmente altri suoi ex colleghi: per esempio, il collega di partito e governatore della sua regione, il pugliese Michele Emiliano. Dal quale, per la concezione che ha dei grillini, analoga se non migliore di quella di Pier Luigi Bersani e del fedele Miguel Gotor, furenti perché Matteo Renzi li tratterebbe da “cani” cattivi, bastonandoli dalla mattina alla sera, non ci sarebbe da aspettarsi come magistrato un giudizio simile a quello di Carofiglio. Non a caso il governatore barbuto esordì a suo tempo offrendo un importante assessorato ad una grillina, che sembrò tentata fino a quando Grillo non le ordinò di tenersi alla larga, temendone forse l’autonomia.

Ho insomma la sensazione che la politica, già screditata per tante ragioni, anche per la rappresentazione che ne fanno i grillini dicendo peste e corna dei loro avversari e concorrenti, sia stata declassata dagli stessi pentastellati ad un una specie di licenza commerciale.

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Apparve clamorosa e beffarda la qualifica di “professionista a contratto” che Bettino Craxi diede una volta da Hammamet al suo ex braccio destro al governo Giuliano Amato, che aveva voluto, potuto e saputo sottrarsi a seguirlo nella disgrazia, continuando a fare carriera. E che carriera, con la grande esperienza di politico e di giurista che giustamente vanta l’ormai famoso “dottor Sottile”. Il quale è arrivato più volte a solo un passo dal Quirinale, contro i cinquanta o poco più che lo separano adesso lavorando come giudice costituzionale nel dirimpettaio Palazzo della Consulta.

Ebbene, magari a sua insaputa, solo per la concezione che lui ha della politica e della disciplina, Grillo ha trasformato i suoi cosiddetti portavoce in dilettanti politici a contratto, e con l’onere dell’esclusiva. È l’evoluzione, o involuzione, come preferite, della specie politica italiana.

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