Forse per le enormi incognite e i conseguenti timori che suscita, appare trascurato il dato che il trionfo di Trump segna una sconfitta per il partito repubblicano, oltre che per quello democratico. L’aggravamento delle fratture socio-economiche provocate dalla crisi esplosa nel 2008, ha determinato in Europa l’insorgere di nuove formazioni politiche definite con malcerta approssimazione populiste. Negli Usa non è arrivata a generare terzi partiti, ma ha progressivamente logorato il tradizionale bipartitismo con outsiders ad esso estranei, fino all’estremo della candidatura Trump che ha resistito all’ostracismo dell’apparato repubblicano riuscendo a imporsi nelle primarie e alla Presidenza.
È il sistema politico-elettorale degli Stati Uniti ad apparire vecchio e claudicante, 230 anni dopo essere stato concepito (gli stati dell’Unione sommavano allora appena 13 ex colonie britanniche e i loro 4 milioni di abitanti erano concentrati in 3 o 4 della costa orientale). Washington, Hamilton, Jefferson, Madison, Franklin, federalisti e centralizzatori, ma anche alcuni loro avversari confederali meno legati al prevalente sviluppo urbano e industriale, vollero soprattutto evitare un’eccessiva dispersione del voto a danno della governabilità, garantendo al tempo stesso la presenza nel Congresso anche agli stati meno popolosi al fine di prevenire il rischio di precoci scissioni.
Così venne concepita la legge tutt’oggi vigente (ma in oltre due secoli gli Stati sono diventati 50 e gli americani 300 milioni), con cui il voto popolare non indica in via diretta il Presidente, bensì un Collegio di grandi elettori non esattamente corrispondenti al numero dei voti in virtù dei correttivi previsti. Tant’è che il 46 per cento dei suffragi messo insieme a livello nazionale da Trump si è trasformato nel 56 dei grandi elettori; mentre il 48 per cento ottenuto da Hillary Clinton, nel Consiglio è sceso al 44. Lo scarso afflusso alle urne, accentuato dall’insoddisfazione per la fragilità e le contraddizioni della ripresa economica, ha ulteriormente evidenziato gli effetti distorsivi della legge elettorale. Vari osservatori ne traggono motivo per riconsiderare la razionalità e l’efficienza dei sistemi elettorali maggioritari, oltre che il loro grado di valenza democratica.
Nel senso che dove e quando appaiono necessarie grandi riforme strutturali, pertanto progetti di lungo periodo, sono indispensabili politiche di stato e non di parte. I 18 milioni di nuovi posti di lavoro creati da Obama sono troppo spesso precari, la sua riforma sanitaria è parziale e a rischio, dal 2008 la polarizzazione sociale si è ulteriormente inasprita (vedi Paul Krugman, New York Times, e “Una economia per il 99%”, Oxfam International: negli Stati Uniti il 40 per cento della ricchezza è nelle tasche dell’1 per cento della popolazione, l’industria manifatturiera langue e la finanza spadroneggia, i profitti lievitano e pagano sempre meno imposte, i salari deperiscono, i grandi manager guadagnano fino a 300 volte lo stipendio di un white-collar, cento volte più che nel 1979).
Lo spoils-system tipico del sistema americano (i vincitori sostituiscono gli sconfitti in tutti i posti chiave dell’amministrazione dello stato) non favorisce le grandi riforme neppure quando il bipartitismo ha un alto grado di omogeneità ideologica. Se come in questo caso le compatibilità sono ridotte quasi a zero, palesemente le ostacola. Meglio allora le democrazie consensuali, la cui flessibilità permette maggiore e più durevole capacità di decisione, tornano a sostenere alcuni neo-rooseveltiani, rispolverando le teorie del politologo olandese-statunitense ed ex presidente dell’Associazione americana di Scienze Politiche, Arend Lijphart. Sembra di riascoltare gli echi di certe polemiche italiane sulla nostra prima Repubblica. Ma che riprendano fiato negli Stati Uniti dell’assai poco compassionevole populismo di Trump non è privo di significato.
Oltre il dibattito vanno sommandosi due protagonismi entrambi epocali e collegati strettamente l’uno all’altro. Il primo muove dalla volontà d’iniziativa politica autonoma dell’industria high–tech della costa ovest (gli oligopoli della comunicazione digitale e del trasporto elettrico tra Silicon Valley e San Francisco; e i grandi gruppi dell’aero-spazio, delle bio-tecnologie e dei nuovi materiali tra Seattle e Chicago. Tutti resi sempre più potenti dall’enorme valore aggiunto di queste produzioni così come dal loro forte appeal socio-culturale). E’ stata la maggiore finanziatrice delle campagne elettorali di Barack Obama. L’altro è l’incessante crescita della dimensione pubblica di Mark Zuckerberg, fondatore, amministratore delegato e maggiore azionista di Facebook, diretto e frequente interlocutore delle massime istituzioni.
Giovane, colto, brillante e miliardario, Zuckerberg rappresenta un modello esemplare di opinion-leader, il suo trionfo negli affari si fonde con l’aura di filantropo che si è creato (ha tra l’altro promesso di donare il 99 per cento del suo azionariato in FB) e ne fa un autentico eroe per le nuove generazioni. Non si è lasciato neppure sfiorare dalle accuse che hanno investito FB, per aver favorito con i suoi motori di ricerca menzogne, dicerie e compiacimenti d’ogni tipo nel corso della campagna elettorale ultima. Lui vola più alto: ”Siamo a un passaggio decisivo della storia, dobbiamo ascoltare la gente comune”, afferma in una tappa del giro avviato già dall’anno scorso e che entro il 2017 deve condurlo attraverso tutti gli Stati Uniti, per incontrare personalità e common people.
Incontrerà anche Trump, ma mantiene stretti rapporti con Obama; senza trascurare il suo club letterario in cui legge e commenta insieme a molti milioni di seguaci un libro al mese (dall’economista, politico e columnist Moisés Naim: “come diventare un leader”, a Dante Alighieri…), né lo studio delle lingue (l’ultima che ha appreso è il cinese-mandarino). La breccia aperta a spallate nelle mura vacillanti del sistema politico americano dalla spregiudicata irruenza di Donald Trump non verrà certo restaurata nei 4 anni della sua presidenza. Nuovi candidati, in maggioranza espressione della liquidità culturale scandagliata da Zygmunt Bauman, saranno quanto prima pronti a varcarla. In campagna ci sono già più di un Mark Zuckerberg, quando decideranno non gli ci vorrà molto per farla diventare elettorale. E già fin d’ora fanno politica.