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Come cambia l’economia globale con il capitalismo digitale

Valeria Termini, capitalismo digitale

Alla crescita economica il mondo occidentale deve la capacità di superare le crisi cicliche e i conflitti sociali che hanno caratterizzato il capitalismo industriale di mercato nei due secoli in cui esso ha prevalso nella storia dell’umanità. Dalla fine del secolo scorso, tuttavia, si è avviata una nuova trasformazione: l’economia della conoscenza digitale e dei servizi sembra mettere in discussione i fondamenti tradizionali della crescita economica e dell’occupazione e richiede nuove chiavi di lettura e di intervento. Il contemporaneo affermarsi dei cambiamenti radicali introdotti con la tecnologia digitale e la vittoria politica delle posizioni liberiste nelle società occidentali ha prodotto una discontinuità straordinaria nella dinamica della produzione e della distribuzione di merci e servizi, nell’organizzazione del lavoro e persino nella vita quotidiana dei cittadini nel mondo.

Ciò richiede naturalmente una sostanziale discontinuità di analisi rispetto al paradigma economico corrente, ancora fondato sui principi dell’individualismo utilitarista, sul predominio delle regole del mercato e sul dualismo Stato-mercato. Costringe anche a una drastica revisione del pendolo delle politiche, che ha bilanciato nel tempo ruolo e funzioni dello Stato e del mercato.

Ma come leggere il cambiamento e con quali strumenti concettuali estrapolare le azioni di possibile intervento?
Qui punto l’obiettivo su tre aspetti chiave, due analitici e uno di indirizzo politico-operativo, che consentono di costruire una visione d’insieme. In primo luogo spicca la caratteristica comune dei soggetti protagonisti del cambiamento, tutti percettori di rendite, i quali hanno lottato e vinto per imprimere la direzione attuale alle istituzioni, di fatto a tutela dei profitti di rendita, caratteristica fondamentale per spiegare larga parte dell’incepparsi della crescita; in secondo luogo rileva l’aumento del peso dei servizi nella produzione del reddito globale, che corrisponde ai cambiamenti introdotti con la rivoluzione digitale, ma anche all’urgenza, crescente e inevasa, di far fronte a una domanda di servizi di cittadinanza collettivi (istruzione, sanità, servizi pubblici di base), determinanti per garantire equità e protezione sociale, ma anche per creare condizioni di crescita di lungo periodo.

Quanto alle azioni di intervento, emerge chiaramente la necessità di identificare nuovi concetti e relazioni economiche – come la produzione di beni comuni e l’avvio di processi partecipativi per rispondere ai bisogni collettivi – intorno ai quali si possa ricostituire il tessuto connettivo della società in una visione funzionale alla ripresa della crescita, poiché la tradizionale dicotomia Stato-mercato non sembra più offrire una sintesi rappresentativa dell’insieme di processi e azioni di intervento nell’economia. Lo scopo è indirizzare la riflessione economica verso un diverso binario, con una struttura teorica più aderente ai bisogni imposti dalla nuova realtà, in un ragionamento di cui traccio di seguito le sequenze concettuali.

L’economia delle rendite non produce crescita economica, né benessere diffuso

La rendita, come è noto, non produce crescita economica, né benessere diffuso. Ma non è per nulla ovvio che sono proprio i grandi percettori di rendite, in settori chiave dell’economia, i protagonisti della trasformazione che alla fine del secolo scorso premono per introdurre nuovi istituti. Sono fautori di un liberismo deregolamentato, in apparenza a tutela del mercato, di fatto volto a rafforzare e proteggere le posizioni di rendita acquisite. L’egemonia di questi soggetti ha indotto un processo di correzioni incrementali e cumulative delle politiche e delle istituzioni che hanno assunto sempre più caratteristiche estrattive, con il supporto di una classe politica compiacente e talvolta collusa; fino a sfociare, oggi, in una architettura istituzionale del tutto sfavorevole alla crescita diffusa e partecipata.

I protagonisti del cambiamento appartengono a tre gruppi sociali diversi, dei quali si possono sintetizzare brevemente le caratteristiche comuni.

Il primo gruppo comprende quel piccolo nucleo di imprenditori globali che da quattro decenni opera sulla frontiera della conoscenza, creando grandi imprese innovative nel settore delle nuove tecnologie. Sono stati la principale forza propulsiva del nuovo corso che, in un primo tempo, hanno tratto vantaggio dall’assenza di regole globali, sfruttando per crescere le condizioni di minore costo, minore protezione del lavoro e diverse regole fiscali in vigore nelle regioni del pianeta; successivamente, tuttavia, hanno chiesto e ottenuto regole e istituti a protezione dei propri diritti di proprietà intellettuale, grazie ai quali hanno potuto estrarre rendite straordinarie. Infatti la nuova normativa sui diritti di proprietà, introdotta con il Bayh-Dole Act (1980) negli Stati Uniti, il cui ambito è stato esteso internazionalmente dalla World Trade Organization con i Trips (gli Accordi del 1994 sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), ha protetto le innovazioni prodotte da quelle imprese, anche se ottenute con finanziamenti largamente pubblici della ricerca di base. Il Governo americano ha così creato monopoli legali, proprio al contrario di quanto avvenne all’inizio del secolo scorso quando

Roosvelt contrastò il potere di mercato dei monopoli naturali esistenti (nei trasporti, ferrovie, energia), con il Clayton Act e il Federal Trade Commission Act (1914), rafforzando lo Sherman Act del 1890.
In altri termini, le nuove norme hanno consentito a Google, Apple, Microsoft, Samsung e pochi altri di trarre profitti di rendita generati con monopolio legale; poiché la protezione dei diritti di proprietà, posta a monte della filiera produttiva, ha bloccato la concorrenza nella produzione e nella vendita dei nuovi prodotti, a discapito di una crescita industriale diffusa. In parallelo, la rivoluzione digitale si è tradotta, come effetto netto, in una riduzione strutturale dell’occupazione.

La privatizzazione della conoscenza nell’evoluzione istituzionale anglosassone, in concomitanza con la rivoluzione digitale nel campo delle comunicazioni, è dunque un evento di portata rivoluzionaria che richiama da vicino la recinzione delle terre a ridosso della prima rivoluzione industriale, anch’esse bene comune prima dell’enclosure. Ma le potenzialità di una nuova ondata di crescita industriale trovano oggi gli ostacoli istituzionali che ne impediscono lo sviluppo. (cfr. M. Mazzuccato, Lo Stato innovatore, trad. it. Laterza, 2013 e U. Pagano, The Crisis of Intellectual Monopoly Capitalism, «Cambridge Journal of Economics», agosto 2014, pp. 1-21).

Il secondo gruppo di protagonisti della svolta liberista comprende i grandi soggetti attivi sui mercati finanziari globali. Anch’essi hanno potuto estrarre larghe rendite dalle attività speculative, aiutati da un nuovo quadro di regole che si è evoluto a loro favore, a partire dagli Stati Uniti negli anni Novanta, gradualmente costruito da burocrati e politici spesso coinvolti nel processo. L’evoluzione delle forme assicurative negli Stati Uniti di fine secolo offre un esempio paradigmatico di questo processo, ma anche della fragilità economica introdotta con il sistema di finanziarizzazione del Welfare, affidato all’oligopolio privato di grandi intermediari finanziari, poi sfociato nella crisi finanziaria del 2007/2008. Non posso soffermarmi qui sull’insieme variegato dei soggetti che operano nei mercati finanziari, a vario titolo partecipi del processo. Mi limito a evidenziare il ruolo svolto dai grandi operatori della finanza nell’indirizzare politiche e istituzioni in una direzione che ha consentito il dispiegarsi dell’attività speculativa globale e l’appropriazione sempre più ristretta e non condivisa di rendite finanziarie. Basti ricordare l’abolizione nel 1999 del Glass-Steagall Act, la legge bancaria (1933)che separava l’attività bancaria dall’ investment banking per contenere la speculazione e evitare il contagio all’economia reale.

Infine, nell’era in cui la crescita economica è ancora strettamente dipendente dall’uso di idrocarburi e fonti fossili di energia, un terzo gruppo di protagonisti della trasformazione è composto dai grandi soggetti che operano nel settore energetico, i quali hanno estratto rendite consistenti dai mercati oligopolistici del gas e del petrolio, a loro volta sostenuti dai governi. Le grandi compagnie del settore hanno mosso enormi flussi di capitali vaganti senza regole globali, aggiungendo strumenti alla speculazione finanziaria con un’elevata volatilità dei prezzi, funzionali alla speculazione ma di ostacolo al finanziamento di una produzione industriale diffusa. Inoltre, nei decenni di fine secolo, hanno offerto ai governanti dei rentier States, produttori di gas e petrolio, spazi economici di azione che hanno frenato lo sviluppo democratico di istituzioni locali propedeutiche a una crescita economica diffusa anche in quei Paesi, dalla regione del Mediterraneo meridionale al bacino mediorientale, dai paesi africani come Nigeria, Algeria, Libia, a Russia e Venezuela, alimentando autocrazie estrattive e militarizzate, impoverendo le popolazioni e contribuendo con la guerra civile a generare flussi migratori straordinari (L. Wenar, Blood Oil, Oxford University Press, 2016).

Ciò che più interessa, ai fini interpretativi, è che di fronte a una classe politica occidentale impreparata a indirizzare il cambiamento, questi grandi soggetti percettori di rendite hanno contribuito a scardinare gli istituti preesistenti per appropriarsi di profitti colossali nel breve periodo; hanno così indebolito strutturalmente le condizioni della crescita del mondo occidentale.

Le straordinarie disuguaglianze sociali sono il frutto anche di questa egemonia. Il disagio sociale acuisce i conflitti, ma una società frammentata che ha espulso larga parte della popolazione dal mondo del lavoro, al quale una parte consistente della popolazione giovanile non ha neppure avuto accesso (mentre in altre parti del mondo i bambini sono sfruttati fin da piccoli) non trova forme di rappresentanza collettiva. È difficile produrre coalizioni tra le forze sociali più colpite per contrastare gli effetti perversi di questo indirizzo. La frammentazione sociale non facilita la rappresentanza di interessi collettivi né la crescita di anticorpi, mentre la comunicazione diffusa attraverso internet – apparentemente coinvolgente e democratica – di fatto contribuisce al formarsi di una cultura fortemente individualistica e soprattutto carente e sostitutiva di luoghi di rappresentazione collettiva dei bisogni.

(Prima parte di un’analisi pubblicata sulla rivista Il Mulino)

Valeria Termini è professore ordinario di Economia politica nell’Università di RomaTre, commissario nell’Autorità per l’Energia e vicepresidente del Coordinamento europeo dei regolatori. 


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