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Chi maramaldeggia contro Matteo Renzi?

MATTEO RENZI

Se il calcio dell’asino è, secondo una famosa favola di Fedro, quello che riceve in fronte il leone già morente per gli attacchi subiti dal cinghiale e dal toro, un po’ gli assomiglia l’intervista al Corriere della Sera con la quale anche il presidente del Senato Pietro Grasso ha voluto dire la sua dopo i ritorni mediatici, in questo primo mese dell’anno nuovo, di Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Pier Ferdinando Casini. Non parlo di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni e dei grillini Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista perché costoro sono in un’intervista continua, saltando ogni 24 ore da un giornale o un salotto televisivo all’altro.

Il leone colpito dal calcio di Grasso è l’ex presidente del Consiglio Renzi, ora soltanto segretario del Pd. Che è tuttavia il partito nelle cui liste Grasso si lasciò candidare per approdare al Senato, dopo una lunga carriera di magistrato, e diventarne a prima botta persino presidente, equivalente alla seconda carica dello Stato, avendo salvato per sé e i suoi successori con la bocciatura referendaria della riforma costituzionale la funzione di supplente del presidente della Repubblica, in caso di bisogno.

Nella bocciatura della riforma costituzionale, alla quale si può presumere ch’egli abbia contribuito per le riserve non nascoste durante il suo percorso parlamentare, Grasso ha voluto vedere la fine di una stagione politica e l’inizio di una nuova.

Sarebbe finita, in particolare la fase “divisiva” vissuta con Renzi a Palazzo Chigi, dove ora siede un conte – Paolo Gentiloni Silvery – così diverso da lui per carattere e capacità di relazioni.

Oltre ad archiviare i caratteri, ripeto, “divisivi” della gestione renziana del governo, e relativo “lessico e bestiario”, che – ha raccontato lo stesso Grasso – portò Renzi una volta a vedere ritratti sulla sua cravatta dei gufi, sino a quando il “mediatore” Sergio Mattarella, del quale erano entrambi ospiti, non stabilì che fossero solo “civette”, il cambio della guardia a Palazzo Chigi potrebbe “sbloccare” il cammino di molte leggi accantonate per le sovrastanti necessità e opportunità della troppo lunga campagna referendaria sulla riforma costituzionale.

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Grazie a quel signore accorto e saggio di Gentiloni, insomma, si potrebbe recuperare in questo scorcio non brevissimo della legislatura, da portare quindi regolarmente a termine nei primi mesi dell’anno prossimo, il tanto tempo “perduto”, letteralmente, inseguendo una riforma istituzionale infine bocciata dagli elettori e una legge elettorale, approvata ricorrendo persino alla fiducia, che ora va rifatta. E ciò sia che vi provveda da sola con le sue forbici la Corte Costituzionale, a detrimento ancora una volta del primato rivendicato dalla politica, sia che alle forbici dei giudici del Palazzo della Consulta seguano l’ago e il filo dei legislatori parlamentari, come naturalmente e – debbo riconoscere – giustamente preferisce il presidente del Senato.

Dissento invece da Grasso quando, per spiegare la sua contrarietà alle elezioni anticipate notoriamente preferite da Renzi, ma forse non da tutti quelli che formalmente lo sostengono ancora come segretario del partito, egli dice: “Evitiamo di passare dalla paralisi pre-referendaria a quella pre-elettorale”. Qui il presidente del Senato compie un errore quanto meno d’ingenuità. Egli non si rende conto che ormai siamo già in campagna elettorale. Lo siamo, non foss’altro, per il solito, annuale turno di elezioni amministrative a inevitabile valenza politica per l’importanza delle città coinvolte: da Genova a La Spezia, da Como a Belluno, da Monza a Padova, da Parma a Piacenza, da Lucca a Pistoia, da L’Aquila, a Taranto, da Lecce a Trapani, da Catanzaro a Palermo.

Ma siamo in campagna elettorale per le stesse elezioni politiche, dalle quali sono condizionate, anche senza essere anticipate, tutte le e scelte di tutti i partiti. Provi, il buon Grasso, a immaginare le difficoltà che dovrà avere per forza il pur paziente, disponibile e virtuoso conte Gentiloni nella preparazione autunnale della cosiddetta legge finanziaria. Egli dovrà fare i conti col solito rigore di Bruxelles, e Berlino, le richieste e proteste delle opposizioni e la paura dell’impopolarità da parte dei partiti della maggioranza e relative correnti.

A Grasso sembrerà un paradosso, ma quanto più lunga sarà quella che lui chiama fase “pre-elettorale” tanto più salirà la temperatura politica. E tanto più ne soffriranno il confronto parlamentare e la produzione legislativa da lui auspicata.

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Di ingenuità comunque pecca anche un politico più esperto e consumato di Grasso come l’ex presidente del Consiglio, e della Commissione europea, Romano Prodi. Che si è unito a D’Alema, dimenticandone generosamente tutti gli sgambetti politici ricevuti, per riproporre il centrosinistra e prevederne ottimisticamente la capacità di essere finalmente e davvero unito, nonostante le dimensioni della crisi economica e sociale del Paese abbiano aumentato, non diminuito le distanze fra le componenti delle coalizioni di governo già guidate da lui nel 1996 e nel 2006.

La prima volta il povero professore emiliano durò a Palazzo Chigi poco più di due anni, sostituito proprio da D’Alema, che preferì succedergli con un’altra maggioranza piuttosto che concedergli un chiarimento elettorale. La seconda volta Prodi durò addirittura meno di due anni, trascinandosi nella caduta la legislatura. E poi il centrosinistra che lui torna a reclamare ne bocciò anche la candidatura al Quirinale. Evidentemente non gli è bastato.

L’ottimismo di Prodi sembra comunque condiviso da Eugenio Scalfari, che su Repubblica, liquidato il nuovo presidente americano Donald Trump come un mezzo Mussolini d’oltre Oceano senza la sua cultura, si è immerso nella politica interna consigliando a Renzi ancora una volta di rinunciare alle elezioni anticipate e di pensare piuttosto a “coinvolgere” nella gestione del Pd e nei progetti post-elettorali “i dissidenti, a cominciare da Bersani”, anche se questi non ne appaiono tentati.

Pure Oscar Farinetti, vicinissimo al segretario piddino, ha voluto dire la sua comprendendo le ragioni per le quali Renzi non vuol fare ciò che invece gli “converrebbe di più “, cioè un ritiro all’estero per “qualche anno” per poi tornare alla grande da quel “fuoriclasse unico”, che è. Visto comunque che ha deciso di rimanere e ripartire subito, Farinetti ha consigliato all’amico di non spingersi “al centro”, per cercare alleati dopo le elezioni, oltre Stefano Parisi perché ormai “non mi pare che Berlusconi conti ancora molto”.

Per inciso, anche Scalfari, pur non liquidando Berlusconi con le parole di Farinetti, ha citato quel diversamente berlusconiano, direi, che è diventato Stefano Parisi come un possibile interlocutore di Renzi se un ritorno al sistema proporzionale dovesse poi obbligare il Pd a cercare alleati oltre il perimetro praticabile della sinistra.

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