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Come e perché la Cina teme Donald Trump alla Casa Bianca

vignetta Trump

L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca sta animando il dibattito politico in tutto il mondo. Se la Clinton e la sua visione di politica estera erano ben note a tutte le cancellerie del pianeta, nessuno sembra poter dire con certezza cosa accadrà quando Trump entrerà nello studio ovale. In Cina, in attesa di maggiori informazioni, il governo non può che ostentare una certa soddisfazione per il risultato delle elezioni americane. La Clinton, dicono gli esperti ufficiali, con il pivot e il Tpp voleva contenere la leadership cinese in Asia e trasformare il Pacifico in un lago americano. L’enfasi di Trump sui problemi interni del Paese invece – come ha spiegato Eric Li sul New Tork Times – sembra presagire a un nuovo equilibrio tra le due potenze fondato sull’accettazione, da parte di un’America più isolazionista, della naturale tendenza cinese a svolgere un ruolo di leader nella regione.

A ben guardare, tuttavia, a Pechino serpeggia una certa preoccupazione sulle reali intenzioni del nuovo, e imprevedibile, inquilino della Casa Bianca. Hu Shuli – editore del gruppo Caixin, ritenuta vicina a Wang Qishan, l’uomo forte posto dal presidente Xi Jinping alla guida della campagna contro la corruzione – critica questi facili entusiasmi e avverte che un rapporto sintonico con gli Stati Uniti ha consentito fino a oggi alla Cina di mantenere la stabilità e il successo del percorso di riforma e apertura avviato da Deng Xiaoping.

Non si tratta di timori del tutto infondati. Se si analizzano i profili dei China hands – gli esperti di Cina – del nuovo presidente, sembra emergere un quadro molto più critico nei confronti della Cina rispetto a quello dell’entourage clintoniano. Michael Pillsbury, consulente del dipartimento della Difesa, primo analista americano a proporre nei primi anni 70 di vendere armi ai cinesi in funzione antisovietica, è da sempre considerato un promotore di un rapporto sinergico con la Cina. Negli ultimi mesi, tuttavia, Pillsbury ha cambiato rotta e ha pubblicato un volume inquietante (La maratona dei cent’anni) in cui descrive un piano segreto dei falchi cinesi per spodestare gli Stati Uniti dalla guida del mondo attraverso l’acquisizione di tecnologie e il progressivo rafforzamento dell’economia e dell’esercito cinesi. Queste tesi sono condivise anche da Peter Navarro, professore di Economia all’Università di California Irvine, l’uomo che Trump ha scelto per la gestione dei rapporti economici con Pechino. Dai titoli delle sue pubblicazioni – Le future guerre con la Cina; Uccisi dalla Cina: affrontare il Dragone -un appello globale all’azione; Gli effetti del militarismo cinese per il mondo – sembra che anche Navarro non sia pronto a essere molto accomodante nei confronti della Cina. Come ha chiarito in una recente intervista per The Guardian, Navarro ambisce a prendere seri provvedimenti contro il governo brutale e autoritario di Pechino colpevole, a suo dire, di massacrare l’economia americana con politiche commerciali e monetarie rapaci e manipolatorie. Per farlo suggerisce di chiedere al Congresso di approvare l’American free and fair trade act, secondo cui ogni nazione che vuole commerciare liberamente con gli Stati Uniti dovrà abbandonare ogni sussidio illegale alle proprie merci, mantenere un valore equilibrato della propria moneta, proteggere severamente la proprietà intellettuale e offrire libero accesso al proprio mercato. In caso contrario, come ha dichiarato lo stesso Trump durante la campagna elettorale, gli Stati Uniti imporranno una tariffa del 45% su tutte le importazioni cinesi.

Trump sa bene di non poterlo fare. Secondo la legge americana, a meno che non venga dichiarato lo stato di emergenza, il presidente ha solo il potere di imporre tariffe su tutte le importazioni fino a un massimo del 15% e solo per 150 giorni. Non avrebbe peraltro alcun senso dal punto di vista commerciale. Gli Stati Uniti importano per lo più prodotti finiti dalla Cina – televisioni, telefonini, giocattoli ecc. – che non vengono più prodotti negli Usa, e simili tariffe colpirebbero solo i consumatori,  spingendoli a spendere di più per comprare prodotti di altri Paesi. Sarebbe diverso, invece, se Trump si concentrasse solo su determinate merci che vengono ancora prodotte negli Stati Uniti, come l’acciaio ad esempio, uno dei capitoli più controversi delle esportazioni cinesi. La nomina di Dan Di Micco – ex ceo della corporation dell’acciaio Nucor e feroce critico della concorrenza sleale cinese – a responsabile del commercio nel team di transizione che porterà Trump alla Casa Bianca, potrebbe forse fornire un’utile indicazione in tal senso. Ciò potrebbe spingere la nuova amministrazione a collaborare più efficacemente con l’Ue e il Giappone contro il dumping commerciale di Pechino e probabilmente creare un clima meno favorevole specie in Europa, alla penetrazione degli investimenti diretti cinesi.

Questi timori sembrano palesarsi anche nelle note della stampa ufficiale. Il 9 novembre in un commento dell’agenzia Xinhua si ripeteva in modo quasi ossessivo l’importanza della cooperazione per il futuro delle relazioni sino-americane. Dopo due giorni The Global Times, il quotidiano ufficiale noto per i suoi toni nazionalisti, faceva la sua parte minacciando una forte rappresaglia commerciale contro gli Stati Uniti in caso di mosse ostili contro la Cina da parte della nuova amministrazione. Sono minacce a salve. Come hanno dichiarato gli stessi esponenti del ministero del commercio cinese, infatti, la Cina esporta più di quanto importa e ciò restringe ipso facto le sue capacità di rappresaglia.

La rappresaglia commerciale peraltro potrebbe essere solo una parte di un nuovo quadro di ridefinizione degli equilibri globali promosso dalla nuova amministrazione, come un nuovo pivot asiatico in salsa conservatrice. Un pivot fondato su un deciso rilancio della forza militare americana e su una razionale devoluzione di responsabilità, e di investimenti, agli alleati nella regione. Un pivot favorito, probabilmente, anche da una revisione strategica dei rapporti con Mosca come sembra presagire la recente nomina del generale Flynn, notoriamente favorevole alla cooperazione con la Russia di Putin, al posto di Consigliere per la sicurezza nazionale.

Se si dovesse avverare, questo scenario sarebbe particolarmente complesso da gestire per la Cina di Xi Jinping, soprattutto in vista del nuovo congresso del Partito comunista che nell’autunno 2017, come sostiene il noto analista Damien Ma, dovrebbe inaugurare una nuova era riformista per il Partito comunista. Ma, parafrasando Hu Shuli, se cambiano le regole del rapporto tra la Cina e il mondo, il processo di riforma ne potrebbe risentire.

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