Senza compiacerci né attorcigliarci nell’autocommiserazione, nel biasimo della cupezza del tempo presente e nel rimpianto di un (forse inesistente) passato mitico, è forse venuto il momento di interrogarsi sulla dimensione rozzamente aggressiva assunta dalla discussione pubblica, non solo nel piccolo condominio italiano.
L’arena pubblica si è ormai trasformata in un rituale di reciproca degradazione. Il bullismo e l’arroganza fanno curriculum, e la prima regola di ogni dibattito sembra essere l’aggressione personale diretta nei confronti dell’altra parte.
Non parlo degli angoli più bui dei social network o dei pollai televisivi, ma pure dei giornaloni (e dei giornalini). Ormai, lo schema logico-argomentativo prevalente non è l’assalto all’argomento altrui, ma al portatore di quell’argomento. Insomma, facendoci aiutare da una metafora “oxfordiana”: prima ti dico che sei “stronzo”, e solo poi – eventualmente – attacco la “stronzata” che hai detto. Esattamente il contrario di ciò che dovrebbe accadere.
Ma davvero siamo a un punto così basso da aver dimenticato le regole elementari di una civile discussione pubblica? Davvero abbiamo dimenticato che bisogna “play the ball, not the man”?
Guardate che non è questione di “bon ton” o di “galateo”, ma proprio di sostanza. Perché implica almeno due conseguenze devastanti. La prima: l’ascesa in ogni ambito (politico, giornalistico, ecc) del più teppista anziché del più competente. La seconda: l’idea che non ci sia alcun vincolo rispetto all’altra parte, una sostanziale indisponibilità a essere “governati” dagli altri (se per caso hanno vinto loro).
L’indimenticabile striscione di una tifoseria calcistica recitava: “Noi odiamo tutti”. Non vorrei che quello striscione da curva fosse divenuto un “comandamento” invisibile, ma ferreamente applicato.