Se c’è una cosa che colpisce veramente nel nostro tempo è vedere l’indifferenza con cui socialmente, privatamente e personalmente si lascino correre, magari dopo furibondi dibattiti momentanei, derive antropologiche i cui risvolti sono veramente difficili da immaginare.
L’ultima trovata, sottolineata poco e soltanto con molto coraggio – dati i tempi che corrono – da Eugenia Roccella su L’Occidentale, è il pronunciamento della Corte d’appello di Milano, la quale, soltanto pochi giorni fa, ha chiuso un occhio su un caso estremo di “maternità surrogata”, con il quale è stato concesso l’atto di nascita di due bambini nati con l’utero in affitto da padri diversi con la collaborazione di due madri, una che ha fornito gli ovociti e l’altra che ha compiuto la gestazione.
Alla faccia della legge 40 e alla faccia di tutti i proclami con cui è stato assicurato falsamente, con il famoso stralcio della stepchild adoption, la totale indifferenza che la legge Cirinnà avrebbe dovuto avere sulle adozioni per le unioni omosessuali.
È proprio vero che non c’è modo migliore per valutare l’impatto di una causa che guardare agli effetti, anche perché, tuonava Tommaso d’Aquino, è logico che un “grande errore in principio diventi enorme alla fine”.
Certo molti già saranno pronti superficialmente a tacciare qualsiasi replica indignata, tipo la mia, a questa deriva etica e antropologica come una soppressione intollerabile della libertà individuale di avere figli a tutti costi, come un atteggiamento reazionario, sia pure applicato a diritti dei quali non ci sono le condizioni naturali e storiche minime per averne la legittimità. Magari, oltretutto, forse perché poche persone ritengono ancora che un caso isolato come questo faccia la regola, come una rondine annuncia la primavera.
In realtà, tuttavia, è proprio così. Se si scherza con la natura una volta, e lo si fa ergendosi a giudici infallibili e onnipotenti delle leggi biologiche, si finisce correi sempre del più terribile nichilismo, del più selvaggio relativismo, degli abusi che si creano, che si avallano e che non si limitano.
Il tema etico del rispetto universale della natura umana, per questo, è la frontiera più importante che in una società libertaria e indifferentista senza controllo, com’è purtroppo diventata la nostra, resta da difendere e tutelare se si continua ad avere un minimo di coscienza formata e un sia pur lieve senso di responsabilità comunitario sul futuro dei nostri figli.
È quasi impossibile contare nel caso di specie – quando cioè due uomini utilizzano per soldi il corpo di due donne per avere dei figli che per natura non possono avere – quante violazioni etiche siano compiute in una botta sola a danno di altri esseri umani, unicamente per togliersi uno sfizio o, se va bene, per ottenere ciò che in realtà non dovrebbe essere lecito neanche desiderare.
In primis sono violati i diritti fondamentali e originari di bambini, i quali, come ogni essere umano, non possono essere creati come pare e piace, ma solo generati secondo le regole eterne della vita da un padre e una madre certi, e a certe condizioni, trovandosi incolpevolmente a vivere oggi senza sapere domani quale sarà la reale paternità e maternità genetica, e chi se ne assumerà davvero la responsabilità morale. Per di più vi è la nefanda utilizzazione economica del corpo di altre donne, comprate o compiacenti, che vengono messe in condizione di donare ovociti e utero non per fare la cosa più misteriosa, generosa e bella che si conosca in natura, vale a dire diventare genitore insieme a un padre e concepire così una vita umana, ma per mettere al mondo per soldi altre persone umane, di cui nessuno sa bene e nessuno saprà mai chiaramente di chi sono figlie. Una vergogna!
Ma, tralasciando il singolo caso in questione, già di per sé raccapricciante, quello che si sta velatamente e progressivamente attuando, senza sosta e senza limitazioni, è una piegatura generale della legge universale della vita, optando per un surrettizio trasferimento del carattere oggettivo della natura umana in un piano inclinato retto solo da una libertà egoista che vuole avere tutto quello che può, senza badare a cosa deve e a cosa non può fare, perché lede e danneggia radicalmente la dignità etica propria e altrui.
Dispiace vedere che ormai vi sia un’assuefazione a giocare così con la natura, connessa ad un’incapacità, quasi sempre utilitaristica, di discernere cosa sia realmente un essere umano, senza contare, in aggiunta, che la singola identità soggettiva è e resta inseparabile dalla presenza comunque di una maternità e una paternità univoca e determinata. Nessuno, poi, sembra badare a quanto sia importante non permettere che i desideri e gli affetti si traducano automaticamente in azioni di cui non si è coscienti e di cui s’ignorano deliberatamente i contorni sinistri.
Ci facciamo in quattro, in definitiva, per difendere l’Occidente quando viene attaccato dal fondamentalismo islamico, disumano e violento, e poi perdiamo la faccia permettendo sulle più inerme persone umane, i bambini, delitti di identità che poco hanno a che fare con l’umanesimo che ci contraddistingue come civiltà e che ci ostiniamo, giustamente, a difendere nel mondo.
I diritti umani si fondano, all’opposto, sul riconoscimento permanente e diretto dei doveri che si hanno verso l’essere reale e oggettivo delle altre persone. Di lì viene il discrimine tra bene e male, tra verità e falsità, e tra una libertà giusta e una ingiusta. Difatti, non esiste bene che non sia fondato sulla realtà umana, da proteggere e tutelare come sacra così com’è, e non vi è male che non dipenda da un uso sconsiderato e ingiusto della libertà.
Se si comincia a ritenere, d’altronde, che l’Io, e la sua libertà, può volere tutto quello che vuole solo perché lo vuole, allora con quale credibilità ci si può poi scandalizzare quando qualche pazzo decide di farsi saltare per aria o uccidere con un camion dei passanti, gridando a Dio che assassinare non è altro che il suo diritto di andare in Paradiso malgrado tutto e tutti.
Il confine tra civiltà democratica e tirannide individualista inizia qui, infatti, ma appare ormai fin troppo sbiadito per essere difeso come si deve e si vorrebbe.