Dopo quasi tre anni di lavoro, il “Gruppo di Alto Livello sulle Risorse Proprie”, guidato da Mario Monti, ha partorito il Rapporto finale e le sue raccomandazioni di policy. Incaricato congiuntamente da Consiglio, Commissione e Parlamento Europei nel febbraio 2014, il gruppo di esperti aveva un mandato esplicito: verificare le possibilità e l’opportunità di dotare il bilancio europeo di risorse proprie, sganciate dai contributi nazionali, per dare piena attuazione al significato della cittadinanza europea, ossia fornire beni collettivi a livello europeo, finanziati con prelievi europei.
Una delle caratteristiche fondanti del ‘patto di cittadinanza’ è infatti il pagamento delle imposte allo Stato da parte del cittadino, che delega lo Stato-sovrano a fornirgli quei beni pubblici di cui ha bisogno (formazione, assistenza sociale, assistenza sanitaria, difesa, giustizia, etc). Ma ormai in Europa siamo cittadini non solo degli Stati sovrani, ma anche dell’Unione Europea. Un concetto tuttavia vuoto, in assenza di un bilancio proprio adeguato a fornire ai cittadini parte di quei beni pubblici di cui hanno bisogno.
Facciamo un esempio. Guardiamo il seguente grafico, che ci dice qual è stata la dinamica della spesa pubblica negli Stati Uniti e in Europa tra il 1995 e il 2010 (fonte: BEA ed Eurostat). In Europa il bilancio sovranazionale (impropriamente indicato nella figura come “Federal”) è rimasto fermo alla soglia del 1% del PIL, mentre i bilanci nazionali variavano anche a causa della crisi e in generale della congiuntura. Negli Stati Uniti, il bilancio federale ha agito in maniera decisamente anticiclica per sostenere l’economia, aumentando la forbice fra uscite ed entrate ad oltre il 10% del PIL.
In Europa, questo oggi non è possibile, perché il bilancio europeo è fisso, basso e costretto al pareggio. Sono stati i bilanci nazionali a doversi far carico delle misure anticicliche, sotto però la spada di Damocle degli spread, dei giudizi di solvibilità dei mercati e della speculazione sui debiti sovrani.
Il Rapporto indica dei percorsi per sganciare il bilancio europeo da alcuni di questi vincoli. Naturalmente, trattandosi di un documento che ci dovrebbe dire come finanziare il bilancio dell’Unione Europea, è tutt’altro che (meramente) tecnico, ma fortemente politico.
Anche se non ci dice a quanto dovrebbe ammontare il bilancio europeo, è evidente che per dare concreta attuazione alle sue indicazioni serve una riforma, sia a Trattati costanti (nell’ambito delle cooperazioni rafforzate), sia dell’intero impianto costituzionale della UE, per modificare le competenze fra Stati ed Unione. Se è vero, come dice il Rapporto, che l’obiettivo strategico del bilancio europeo è quello di sostenere investimenti a medio e lungo termine e di svolgere alcune funzioni redistributive, allora va anche preso atto che con lo 0,9% del PIL europeo, la maggior parte del quale va ancora a sostenere i redditi agricoli, non è possibile sostenere gli investimenti necessari a far ripartire l’economia in Europa ed a sanare le situazioni di palesi ingiustizie distributive ad oggi esistenti.
Delle due l’una: o sono i bilanci nazionali a doversi far carico degli ammortizzatori sociali e delle politiche redistributive, ma allora pretendere il rigore e l’austerità diventa penalizzante nei confronti delle fasce più a rischio della popolazione; oppure deve essere il bilancio europeo a farsene carico, in un rapporto dialettico con l’autorità di politica monetaria (la Bce).
Il rigore dei conti pubblici nazionali insomma è sostenibile solo se accompagnato da una ridefinizione delle competenze a favore dell’Unione (che dovrebbe farsi carico, sgravando i bilanci nazionali, di poste come i sussidi di disoccupazione, forme di assistenza sociale attiva, ma anche, appunto, grandi investimenti infrastrutturali, sostegno all’innovazione e alla ricerca, etc).
Purtroppo, contenuti analoghi sono stati espressi a più riprese nel corso della storia dell’integrazione europea, dal ‘Rapporto Werner’ del 1970, al ‘Rapporto McDougall’ del 1977, per passare attraverso il ‘Libro Bianco’ di Delors del 1993 e il ‘Rapporto Sapir’ del 2003. Tutti bellamente ignorati dai Capi di Stato e di Governo, che li hanno relegati a fonti d’archivio per qualche storico curioso.
Ma la storia e le condizioni cambiano; quello che un momento sembra impossibile, può improvvisamente diventare politicamente urgente e fattibile. Insomma, il Rapporto del Gruppo Monti lancia un segnale politico importante. È un documento non proprio audace, ma tutto sommato coraggioso. La strada da battere per spostare le competenze di spesa dagli Stati alla UE è stata tracciata. Adesso sta al Consiglio e al Parlamento dirci se sono disposti a fare sul serio. Possibilmente in fretta, perché i cittadini pretendono risposte concrete ed immediate.
Ma c’è oggi un altro problema, il sostegno popolare. Nel clima che si è venuto a creare negli ultimi anni, è più probabile che le indicazione del Rapporto Monti suscitino proteste, piuttosto che soddisfazione: “Vedete, vogliono aumentare ancora le tasse”; “L’Europa ci sottrae ulteriori risorse, dobbiamo riprenderci la nostra sovranità!”; etc.
Se qualche anno fa il Rapporto poteva essere salutato con soddisfazione, e l’unica incognita era legata al fatto che le élites politiche nazionali “facessero davvero sul serio”, adesso abbiamo anche il problema del sostegno dei cittadini. Occorrerà una seria campagna di comunicazione e di informazione istituzionale e politica, per far capire ai cittadini europei che una ridefinizione delle competenze e delle imposte a favore dell’Unione Europea non è l’ennesima rapina perpetrata dal complotto neoliberale (in questo, la scelta di Monti come guida del Gruppo è stata decisamente infausta), ma l’unico modo per dare concreta attuazione ad una cittadinanza finalmente slegata dalla lealtà assoluta ed esclusiva allo Stato-nazionale, una cittadinanza multilivello in cui l’individuo si senta parte attiva di scelte collettive che dalle comunità locali si estendono fino a quelle sovranazionali.
Servirà poi spiegare (e trasformare di conseguenza le istituzioni europee) che l’allocazione delle risorse raccolte dai cittadini dovrà essere decisa con un sistema di rappresentanza democratica che non può essere quello attuale, fortemente intergovernativo; non si possono spendere i soldi dei cittadini senza interpellarli. Come dicono nei paesi anglosassoni: “no taxation without representation”. Insomma, per gestire un bilancio sovranazionale con caratteristiche redistributive, occorre un Tesoro sovranazionale.
Non sarà facile.