La Turchia si prepara a un nuovo periodo di tensione, come se non ne avesse avuti già abbastanza. E questa volta ci sono tutti gli estremi per dire che se lo sta andando a cercare, soprattutto uno: il presidente Recep Tayyip Erdogan.
Che il capo dello Stato voglia cambiare la forma di governo del Paese, da Repubblica parlamentare a Repubblica presidenziale, non è un mistero per nessuno. Il dramma, e secondo molti l’errore, è che vuole andare avanti con il suo disegno proprio adesso che il Paese è quanto mai vulnerabile e il suo operato sotto la lente di ingrandimento anche da chi lo ha sempre difeso e votato.
L’iter è partito in Parlamento lo scorso 9 gennaio. A fine mese il pacchetto che cambia 18 articoli dell’attuale legge dovrebbe essere votato. Stando alla situazione attuale, l’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo che guida il Paese dal 2002, dovrebbe contare sui voti del Partito nazionalista (Mhp). Questo permetterebbe a Erdogan di ottenere una maggioranza di 330 deputati. Insufficiente per fare passare la riforma ma che bastano per portarla a referendum.
La consultazione si terrà molto probabilmente ad aprile e il presidente è convinto di vincerla, anche se per adesso i sondaggi danno il no alla riforma in vantaggio sul sì, con il 42% contro il 40%.
La sua approvazione è così importante per il Capo dello Stato perché legalizzerebbe definitivamente la sua posizione. Erdogan gode di fatto già di strapoteri, soprattutto dopo l’ultimo golpe fallito. Se ne è però arrogato in buona dose indebitamente. La riforma dunque gli serve per avere l’investitura definitiva anche dalla legge.
Il presidente sembra avere quanto mai fretta di andare al voto referendario nonostante stia passando il periodo più critico della sua vita politica.
In realtà alcuni validi motivi per spingere verso le urne nonostante il rischio che corre ce li ha. In primo luogo, Erdogan sa perfettamente che l’emergenza terroristica non è affatto finita e che la situazione può solo peggiorare, quindi rimandare non solo non avrebbe senso, rischierebbe di far votare la riforma in un clima interno anche peggiore.
Ma ci sono altri tre aspetti che hanno convinto Erdogan ad andare avanti con l’iter nonostante il Chp, il Partito repubblicano del popolo, principale voce dell’opposizione gli avesse chiesto di procrastinare a causa dell’emergenza terrorismo. Primo: dall’economia arrivano segnali inquietanti. Il cambi su euro e dollaro sono in buona dose fuori controllo e a causa dell’instabilità interna gli investimenti stranieri diretti sono crollati. Secondo: c’è la probabilità che un iter troppo lungo fomenti la minoranza curda. Questa riforma costituzionale infatti va chiaramente contro i loro interessi. Il Mhp ha garantito il suo appoggio a patto che la minoranza non ottenga i riconoscimenti che attende da decenni. Per questo, il Presidente sta caricando questo processo della retorica patriottica più convincente possibile. Gli servirà invocarla soprattutto quando, con la campagna referendaria, il Pkk probabilmente aumenterà i suoi attacchi, già divenuti molto più violenti e frequenti di una volta. Infine, Erdogan sa di essere solo e di avere molti nemici nel Paese che non sono più pronti a perdonargli questa anomalia di potere alla quale lui stesso ha dato vita.
Per tutti questi motivi, l’unica soluzione per lui è andare al voto al più presto possibile. Parte del popolo turco probabilmente non crede più in lui come una volta. Ma l’emergenza terrorismo sta angosciando tutti, manca una figura alternativa e soprattutto la macchina governativa controlla saldamente tutto il Paese. E se prima il presidente teneva il suo elettorato coeso con le riforme economiche e le promesse d’Europa, adesso c’è questo neo nazionalismo con una Turchia costantemente al centro di qualche complotto internazionale, che si deve difendere dai nemici interni ed esterni. Ed Erdogan sembra ancora l’unico in grado di garantire questa sensazione di protezione.