Nei palazzi della politica chiamano già “la sentenza 2018” quella con la quale la Corte Costituzionale con 8 voti contro 5 ha buttato nel cestino il referendum promosso dalla Cgil non per ripristinare il famoso articolo 18 del vecchio statuto dei diritti dei lavoratori contro i licenziamenti, ma addirittura per estenderne l’applicazione alle piccolissime aziende che ne erano escluse prima della riforma del mercato del lavoro.
È stata proprio questa forzatura, possibile con un referendum ancora più manipolativo di quelli permessi in passato col furbesco, più che sapiente, uso del bisturi per tagliare parole, punti e virgole di un articolo di legge, ad affossare il tentativo della Cgil di abusarne più del solito.
La sentenza dei giudici del Palazzo della Consulta, essendo se non la prima una delle prime di questo 2017 appena cominciato, non potrà naturalmente portare, quando verrà depositata e pubblicata, il numero 2018. E chi gli ha già assegnato metaforicamente questo numero non ha neppure voluto usare il 18 solo per riferirsi all’articolo del vecchio statuto dei diritti dei lavoratori. No. Il 2018 è stato concepito anche come anno: quello prossimo, della scadenza ordinaria della legislatura uscita dalle urne del 2013. Che è la scadenza alla quale gli avversari di Matteo Renzi, fuori e dentro il suo partito, vorrebbero che gli elettori fossero mandati alle urne, senza sciogliere anticipatamente le Camere per mandare gli italiani alle urne in primavera, al più tardi in autunno. Che potrebbe essere una stagione più accettabile da quei circa 300 parlamentari di prima nomina che avranno maturato nel frattempo il diritto al vitalizio, senza perdere i contributi previdenziali trattenuti dalle loro indennità dal primo giorno di questa legislatura.
Il referendum bocciato dalla Corte Costituzionale era generalmente, e fondatamente, considerato la mina più pericolosa sul percorso residuo delle Camere elette quasi quattro anni fa. Piuttosto che cercare di sminarne la strada con una modifica, difficilmente raggiungibile in poche settimane, della legge contestata dalla Cgil col suo referendum, la maggioranza di governo avrebbe potuto cedere alla tentazione di una crisi per andare alle elezioni, e rinviare conseguentemente di almeno un anno la prova referendaria. Si sarebbero così attirati due piccioni con una fava. Si sarebbe cioè favorito il disegno elettorale e guadagnato il tempo necessario per trovare nella nuova legislatura l’accordo sulla modifica di legge con cui superare la richiesta referendaria dell’ostinatissima signora Susanna Camusso. Che ha già minacciato di ricorrere alla Corte Europea contro la Corte Costituzionale italiana, le cui sentenze sono notoriamente inappellabili. E meno male che la segretaria generale della Cgil si è fermata all’Europa, senza spingersi sino all’Onu.
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Sugli altri due referendum promossi dalla Cgil e scampati alla bocciatura dei giudici costituzionali un accordo fra i partiti della maggioranza, ma soprattutto all’interno del sempre agitato Pd, appare meno difficile che su quello soppresso dalla Corte. Pur sotto schiaffo per la sfiducia parlamentare che incombe su di lui per la gaffe di cui si è scusato pubblicamente sui giovani toltisi fra i piedi andando a lavorare all’estero, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è già impegnato a modificare, riducendone l’uso, il regime dei buoni per i lavori occasionali, chiamati voucher. E dei quali la Cgil, colta con le mani nel sacco, ha fatto troppo uso di suo per avere un serio potere contrattuale nella partita della soppressione.
Nessun ostacolo serio s’intravvede neppure per modificare in tempo, prima della data del referendum che sarà fissata dal governo in una domenica compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno, la legge che oggi non riconosce una responsabilità solidale fra appaltatore e appaltante nei riguardi dei diritti dei lavoratori.
Sarebbe d’altronde suicida la minoranza del Pd se in Parlamento alzasse tanto la posta, mettendosi in concorrenza con la stessa Cgil, da fornire argomenti alle tentazioni elettorali di Renzi, ora libero dal sospetto di volere usare lo scioglimento anticipato delle Camere, comunque spettante solo al presidente della Repubblica, per sottrarsi al referendum sull’articolo 18. Che più si sarebbe prestato alla rappresentazione di un leader tanto alle corde sul tema dei licenziamenti da preferire il ricorso ad un altro tipo di urne: quelle per il rinnovo del Parlamento.
CHE COSA SUCCEDE AL FOGLIO?
A questo punto, tuttavia, occorre chiedersi se Renzi sia ancora e davvero preso da quella che è apparsa a taluno persino una frenesia elettoralistica.
Nella nuova veste assunta dopo le feste di fine anno, quella di un uomo quasi defilato, misterioso nei suoi silenzi, come lo era spesso nella Dc un uomo così antropologicamente diverso da lui –direi – come il povero Aldo Moro, del segretario del Pd prevalgono ormai più le interpretazioni che gli annunci.
Da qualche giorno, per esempio, sul Foglio di tendenza renziana, come una volta si diceva di “tendenza Veronica”, ai tempi dell’”amor nostro” Silvio Berlusconi, si leggono articolati ragionamenti del direttore Claudio Cerasa sulla convenienza che Renzi dovrebbe avvertire a votare nel 2018. Eppure il fondatore del giornale, Giuliano Ferrara, aveva chiesto dopo la bocciatura referendaria della riforma costituzionale di andare alle elezioni anticipate anche sotto la neve e le tormente che ci sta regalando questo severo 2017.