Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Sergio Mattarella, il messaggio tv e l’innominato Matteo Renzi

Mattarella, voto, Alto Adige elezioni

Nel messaggio radiotelevisivo di Capodanno, trasmesso alle solite reti unificate, che per fortuna sanno solo di rispetto e non d’imposizione o di paura, il presidente della Repubblica ha voluto parlare di politica solo nella breve parte conclusiva, giusto per fare “un cenno alla vita delle nostre istituzioni”.

Già questa mi è sembrata una scelta significativa di Sergio Mattarella, consapevole del carattere tanto assordante e rancoroso – il presidente ha parlato di “odio” ormai di moda nell’ambiente – quanto confuso della politica italiana. Che non ha tuttavia impedito, com’egli stesso ha sottolineato, “l’alta affluenza” al referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale: “segno – ha detto – di grande maturità democratica” degli elettori. Ciò a prescindere naturalmente dal risultato, cioè dalla bocciatura di una riforma che anche il capo dello Stato aveva mostrato di ritenere utile al Paese, tanto da aver lasciato attribuirgli da Eugenio Scalfari, su un giornale non certo fra i meno diffusi del Paese, la decisione di votare a favore, senza opporre alcun tipo di smentita o di precisazione. Era, d’altronde, una riforma esplicitamente sponsorizzata dal suo predecessore al Quirinale, che l’aveva praticamente imposta all’agenda del governo e del Parlamento, fra gli applausi di praticamente tutti i deputati e senatori, nel discorso pronunciato a Montecitorio il 22 aprile 2013, dopo la sua rielezione: un inedito assoluto nella storia della Repubblica.

Tanto fu imposta, quella riforma, che Giorgio Napolitano minacciò senza mezzi termini di dimettersi se governo e Camere appena elette non avessero raccolto la sua richiesta. E le Camere, ripeto, con quegli applausi larghissimi mostrarono di gradire. Esse d’altronde avevano già dato prova infelice dimostrando di non aver saputo trovare un successore al presidente uscente, per quanto già anziano e stanco. Entrambi i candidati proposti dal partito di maggioranza, il Pd, erano stati bocciati a scrutinio segreto: prima Franco Marini, presidente dello stesso Pd messo in pista nella presunzione che potesse raccogliere anche i consensi di almeno una parte di quello che era ancora il centrodestra, e poi Romano Prodi, inviso allora al centrodestra ma ritenuto, evidentemente a torto, gradito alla sinistra come protagonista della stagione dell’Ulivo.

In verità, come tutti sanno, almeno nei palazzi della politica, compreso il Quirinale, più che i voti della destra a Marini e della sinistra a Prodi, erano mancati all’uno e all’altro quelli del loro partito, in un gioco infernale di correnti e relativi franchi tiratori, come sono quelli che pugnalano i candidati di turno all’oscuro delle cabine elettorali allestite nell’aula di Montecitorio in queste occasioni. Un gioco infernale che il Pd ha ereditato pari pari dalla Dc.

Di quella realtà, cui aveva contribuito nel 2013 anche lui, pur non essendo parlamentare ma disponendo lo stesso di un gruppetto di deputati e senatori, Matteo Renzi tenne sapientemente conto nel 2015, quando gli toccò gestire dalla segreteria del partito e da Palazzo Chigi la successione a Napolitano, arresosi all’età e agli acciacchi dopo due anni del secondo mandato.

Anche a costo di rompere il famoso patto del Nazareno con Silvio Berlusconi sulle riforme istituzionali, compresa quella elettorale, Renzi cercò il candidato che potesse tenere il più unito possibile il Pd trovandolo proprio in Sergio Mattarella. Che, eletto alla quarta votazione, potette giurare il 3 febbraio 2015.

++++

Non foss’altro per questo, cioè per il modo in cui fu portato al Quirinale quasi due anni fa, trasferendosi dal Palazzo della Corte Costituzionale che gli sta di fronte, e dove lui lavorava da giudice di elezione parlamentare, pensavo che Mattarella non si lasciasse scappare l’occasione del messaggio di Capodanno –il secondo del suo mandato- per rivolgere un saluto non dico riconoscente, per carità, ma di onore delle armi a Matteo Renzi, coerentemente dimessosi da presidente del Consiglio dopo la dura sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale.

Invece, niente. Il presidente della Repubblica ha trovato il modo, giustamente, di mandare verso il termine del messaggio un saluto a Papa Francesco, ma un pensiero all’ex presidente del Consiglio no, dopo mille giorni e più di governo, gran parte dei quali trascorsi con Mattarella al Quirinale, felice sempre, o quasi sempre, di controfirmarne i decreti e quant’altro, compreso l’atto di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della riforma costituzionale poi bocciata da 19 milioni di elettori, d’accordo, ma anche gradita a più di 13 milioni, fra i quali –se le anticipazioni di Eugenio Scalfari furono vere, come ho già ricordato- lo stesso capo dello Stato. Che giustamente si premurò il 4 dicembre di andare alle urne.

Della vicenda politica seguita a quel benedetto o maledetto giorno, secondo i gusti, il presidente ha detto solo questo, con uno stile un po’ biblico, forse a sua insaputa, fedele del resto al “cenno” promesso sulla politica: “Dopo il referendum si è formato un nuovo governo”. Amen. Eppure solo undici giorni prima, parlando ad una platea più ristretta, quella delle autorità istituzionali salite sul Colle per fargli gli auguri di buone feste, Mattarella aveva ritenuto di rivolgere a Renzi “un cordiale saluto” e un ringraziamento “per l’opera prestata al servizio del Paese in quasi tre anni di intenso impegno a capo del potere esecutivo”. Perché il presidente non ha ritenuto di confermare questo apprezzamento parlando direttamente al Paese, e non ai soliti noti del 20 dicembre?

Ah, cosa avrei pagato per essere una mosca, sia pure fuori stagione, e volare attorno a Matteo Renzi, nel rifugio dolomitico dove sta trascorrendo –credo- la sua breve vacanza con la famiglia, e sentirne i commenti a quel fugace e non generoso passaggio dell’augurio di Mattarella agli italiani per il transito dal vecchio al nuovo anno.

++++

Detto questo, e trascurato il resto del messaggio presidenziale della sera di San Silvestro perché mi è sembrato scontato, pur ricco – per carità – di contenuti sociali, a cominciare dall’apprezzamento per gli italiani costretti il più delle volte a lavorare all’estero, e liquidati invece con frasi infelici dal ministro confermato del Lavoro Giuliano Poletti, non a caso a rischio ora di sfiducia parlamentare proprio per questo, debbo onestamente riconoscere che qualche ragione non dico di risentimento, ma di delusione nei riguardi dell’ex presidente del Consiglio ce l’aveva e ce l’ha il capo dello Stato.

Provo ad elencarvele, queste ragioni, un po’ per le notizie di cui dispongo frequentando i cosiddetti palazzi della politica, che purtroppo da qualche tempo sono sempre meno anche quelli del potere, in buona parte trasferitosi o rimasto altrove, come ben sanno, per esempio, certi magistrati, banchieri e giocatori di borsa, e un po’ intuendo.

Temo che Mattarella non abbia ancora perdonato del tutto a Renzi, come del resto il predecessore al Quirinale, di avere troppo e troppo a lungo personalizzato la parte iniziale della campagna referendaria sulla riforma costituzionale, facendone, volente o nolente, ma forse più volente che nolente, una specie di plebiscito sulla sua leadership. E ciò a danno dei contenuti della riforma che, seppure un po’ pasticciati sotto certi aspetti, era pur sempre una riforma, e non la “schiriforma” –sintesi di riforma e schifezza- dileggiata dai vari Massimo D’Alema, Beppe Grillo e Marco Travaglio. Ad un certo punto, in verità, Renzi tentò una correzione, ma forse troppo tardi. Ormai il referendum aveva preso una brutta, anzi pessima piega.

A sconfitta consumata, Renzi non ha voluto saperne di un altro consiglio datogli da Mattarella: quello di dimettersi sì per ragioni di stile e di coerenza, ma di accettare responsabilmente, per i rilevanti impegni internazionali assunti dal suo governo, l’invito del capo dello Stato a rimanere al suo posto, o lasciandosi rinviare alle Camere per una conferma della fiducia parlamentare di cui godeva o accettando l’incarico della formazione di un nuovo Ministero. Egli sarebbe stato certamente attaccato dai soliti avversari, interni ed esterni al suo partito, ma l’allora presidente del Consiglio avrebbe potuto farsi scudo proprio della posizione assunta dal presidente della Repubblica. Di cui, in sostanza, Mattarella ad un certo punto può anche avere pensato che Renzi, rimanendo sulle proprie posizioni, sottovalutasse il ruolo per conservare se stesso al centro della scena.

Vi dirò di più. Renzi non solo ha opposto il suo irrevocabile rifiuto agli inviti di Mattarella, ma se n’è imprudentemente vantato davanti all’Assemblea nazionale del Pd, cedendo ancora una volta al suo difetto, anzi eccesso di vanità. Si è vantato, in particolare, di essersi dimesso “tre volte”, quante – aggiunge – neppure in un secolo sarebbe riuscito a fare un democristiano di vecchia maniera, ed essendo in questo anche ingeneroso, perché il suo corregionale Amintore Fanfani era un collezionista di dimissioni e cadute. Da cui l’aretino riusciva sempre a rialzarsi guadagnandosi da Indro Montanelli il soprannome di “Rieccolo”.

++++

La prima volta – ha raccontato lui stesso ai suoi colleghi di partito – Renzi si dimise da presidente del Consiglio il giorno dopo il referendum, accettando di soprassedervi sino all’approvazione definitiva del bilancio dello Stato. La seconda volta si dimise a bilancio approvato, con tanto di voto di fiducia nell’aula del Senato, a conferma quindi di disporne, e nel giro di 48 ore. La terza volta, che avrebbe dovuto rimanere riservata, si “dimise” a consultazioni finite al Quirinale, quando Mattarella lo chiamò al telefono per riproporgli l’incarico, prima di rassegnarsi a darlo al conte Paolo Gentiloni Silverj, peraltro indicato dallo stesso Renzi.

Con la stessa franchezza con la quale ho lamentato il silenzio di Mattarella sull’ex presidente del Consiglio, divenuto così nel messaggio presidenziale l’Innominato di manzoniana memoria, debbo riconoscere che di motivi per avere, diciamo così, il broncio con il segretario del Pd, per quanto suo grande elettore al Quirinale, Mattarella ne aveva e ne ha.

Un chiarimento fra i due non gusterebbe né sul piano istituzionale né sul piano personale, essendo destinati entrambi a gestire, su piani naturalmente diversi, gli ultimi e difficili passaggi di questa legislatura sfortunata anche nel numero, che è il 17. Ed è purtroppo, per i superstiziosi, che non mancano, anche il numero dell’anno appena cominciato.

×

Iscriviti alla newsletter