Che lo sport sia una metafora della guerra non è una novità. Lo hanno sostenuto filosofi come Jean-Paul Sartre, teologi come Bernhard Welte, romanzieri come Nich Hornby. Ma nei Balcani lo sport non è solo una metafora della guerra. Nei Balcani la guerra è anche la prosecuzione dello sport con altri mezzi. Lo spiega in un libro avvincente Gigi Riva, un giornalista (da non confondere con il grande bomber) che li conosce quanto le sue tasche (L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, Sellerio, 2016). Infatti, in nessuna regione europea il rapporto tra sport e potere è stato tanto stretto e perverso, e in nessuna regione europea il calcio è stato utilizzato con tanta spregiudicatezza dai movimenti separatisti come strumento di consenso. È così potuto accadere che un episodio apparentemente banale, un penalty fallito, sia diventato l’emblema della disfatta di un Paese.
Non è stata una partita qualsiasi, infatti, quella tra Jugoslavia e Argentina. La posta in palio il 30 giugno 1990 allo stadio Artemio Franchi di Firenze (l’accesso alle semifinali dei mondiali) era alta, e si sfidavano due formazioni ricche di fuoriclasse. Sopra tutti, Diego Armando Maradona e Dragan Stojkovic. Entrambi straordinari virtuosi della sfera di cuoio, solisti anarchici e di temperamento ribelle, con tendenza alla guasconeria. La gara, sebbene l’Albiceleste giochi in superiorità numerica fino ai tempi supplementari, termina a reti inviolate. Si va ai calci di rigore. Il rigore è una punizione che non esisteva agli albori del football. La inventò nel 1890 un irlandese, William McCrum, per scoraggiare i ripetuti falli di mano commessi vicino alla porta.
Dopo diversi errori dal dischetto (clamorosi quelli di Stojkovic e Maradona), l’Argentina è ancora in vantaggio di un gol. È di Faruk Hadzibegic, il capitano del “Brasile d’Europa”, l’ultima chance per ristabilire la parità. Il suo tiro è prevedibile e il portiere avversario, Javier Goycochea, lo respinge a pugni chiusi. Faruk è annichilito. I suoi compagni, sebbene prostrati, cercano invano di consolarlo. Dalla stampa la sconfitta viene letta come il segno di un Paese allo sbando. A novembre, le prime elezioni libere in Bosnia decretano il trionfo del nazionalista Alija Izetbegovic e dei partiti etnici.
Dopo la batosta fiorentina, fioccano le defezioni di sloveni, croati e macedoni. Si infittisce, al contrario, la pattuglia serba. Nella Stella Rossa di Belgrado stava allora emergendo un giovane che farà molto parlare di sé, Sinisa Mihajlovic. Il 29 maggio il club vince la Coppa dei Campioni battendo l’Olympique Marsiglia a Bari. Il 15 febbraio 1992 i governi della Comunità europea riconoscono l’indipendenza della Slovenia e e della Croazia. Due settimane dopo il “poeta e psichiatra” Radovan Karadzic annuncia la costituzione della “Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina”. Faruk comincia a meditare un gesto eclatante. Il 25 marzo 1992 è ad Amsterdam, per un’amichevole con l’Olanda. Terminata la partita, entra negli spogliatoi e si dimette da capitano della nazionale. Per lui non esisteva più, perché non esisteva più una patria da rappresentare.
La sua decisione viene accettata con rispetto. Priva dei suoi leader carismatici, la nazionale si sfascia. Quella -decimata- che a giugno atterra a Stoccolma per partecipare agli Europei non riesce nemmeno scaldarsi i muscoli sul campo di allenamento. Una risoluzione dell’Onu ratifica l’embargo totale contro la Serbia e il Montenegro, responsabili della guerra in Bosnia. La Jugoslavia viene cacciata dal torneo e sostituita dalla Danimarca, seconda del girone (che vincerà a sorpresa la competizione).
Zeliko Raznjatovic, detto Arkan (la Tigre), in Svezia non c’era. Ricercato dalla polizia scandinava per rapina a mano armata e omicidio, rischiava l’arresto. Il suo curriculum criminale era da incubo. Dopo aver appoggiato con i suoi mercenari l’armata federale nello sterminio dei croati a Vukovar (agosto-novembre 1991), aveva licenza di uccidere e saccheggiare. Si comportava ormai come un capo di stato. È lui a ricevere all’aeroporto di Belgrado la Stella Rossa, di ritorno da Tokyo dove a dicembre aveva strappato la Coppa Intercontinentale al Colo-Colo cileno. Sotto la scaletta dell’aereo, la squadra consegna il trofeo ad Arkan. L’abbraccio più caloroso è con Mihajlovic, alfiere dell’orgoglio serbo, il più politicizzato tra i calciatori. L’adorazione nei suoi confronti non viene scalfita nemmeno dalla esecuzioni di massa di cui è protagonista in Bosnia.
Adesso, giugno 1992, Arkan è all’apice del successo. Tra una scorribanda e l’altra contro i “balje”, i turchi bosniaci, conduce una vita da nababbo nella capitale, fino a quando gli accordi di Dayton (21 novembre 1995) pongono ufficialmente fine all’assedio di Sarajevo. La Bosnia è sulla via della pacificazione. Arkan deve reinventarsi un mestiere. Vorrebbe comprare la Stella Rossa, ma il tentativo fallisce. Ripiega su una piccola società di seconda divisione, l’Obilic. Coi proventi del malaffare, costruisce un stadio avveniristico in vetro e acciaio. Dopo due anni si aggiudica lo scudetto. Arbitri intimiditi, avversari minacciati con le cattive maniere, calciatori rapiti se restii a firmare un contratto. Quando l’Obilic vince il titolo (1998), Arkan non può però accompagnare la squadra a Monaco di Baviera per l’esordio in Champions League. Pendeva infatti sulla sua testa un mandato di cattura emesso dal Tribunale penale internazionale. Il 15 gennaio 2000 viene assassinato da un poliziotto nella hall di un albergo di Belgrado. Erano appena cessati i bombardamenti della Nato sulla capitale dopo i moti del Kosovo. Arkan non serviva più, e sapeva troppo. Ratko Mladic, il generale dei serbi bosniaci che a Sarajevo voleva “stirare le menti della popolazione civile”, regista dell’eccidio di Srebrenica, ne elogia pubblicamente le virtù di guerriero e di patriota. Mihajlovic e il montenegrino Dejan Savicevic, soprannominato il “Genio”, gli dedicano un necrologio encomiastico. Con il sogno panslavista in frantumi, anche la formula trita dello sport che affratella andava in soffitta.