Domenica 29 gennaio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha avuto una conversazione telefonica con due importanti partner mediorientali: i sauditi e gli emiratini. Durante i colloqui, ai quali hanno presenziato anche il genero-in-chief Jared Kushner (inviato della Casa Bianca per la pace israelo-palestinese) e il consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn è emersa la volontà di ricostruire forti rapporti di collaborazione.
LE SAFE ZONES…
Tra le varie cose, la spinta per creare delle “safe zones” per i civili siriani e yemeniti. I due paesi del Golfo sono coinvolti direttamente nel secondo conflitto, perché fanno da capofila dell’alleanza sunnita che sta cercando da mesi (con risultati non idilliaci) di respingere i ribelli filo-sciiti e filo-iraniani Houthi; e sono parte in causa anche in Siria, in quanto sono il background, soprattutto i sauditi, di gruppi ribelli che combattono il regime. La richiesta di creare safe zones locali fa da sponda, tra l’altro, al controverso ordine esecutivo con cui i cittadini di Siria e Yemen, e di altri cinque paesi, siano essi rifugiati politici o no, non potranno entrare negli Stati Uniti per 90 giorni e per 120 vengono sospesi i programmi di accoglienza dei profughi.
… DOVE SONO?
Nonostante la questione “safe zones” sia di centrale importanza, sia stata evocata nei giorni passati dall’amministrazione americana anche come bilanciamento della decisione presa dal presidente sugli immigrati, e sia uno dei grandi argomenti attorno alla guerra civile siriana (fu proposto tra i primi da Hillary Clinton ai tempi in cui era segretario di Stato, e poi ribadita durante la campagna elettorale contro Trump), nel testo dell’executive order non è mai indicata. Però la nota di commento alla conversazione con il sovrano saudita diffusa dalla Casa Bianca dice che re Salman ha accettato la proposta di creare queste aree in cui “assistere i profughi a casa loro” (si direbbe con quello che ormai è un adagio popolare). E lo stesso avrebbe fatto l’emiratino Muhammad bin Zayid Al Nuhayyan. Le agenzie saudite parlano della volontà di creare queste zone sicure per i civili in Siria, ma non fanno cenno allo Yemen. Comunque nessuno parla di come o dove queste “safe zones” dovranno essere costruite. Un aspetto non certo secondario, visto che si tratterà di crearle per lo meno all’interno di uno stato che di fatto è ancora sovrano, la Siria, e guidato da un presidente dispotico avverso sia agli americani, sia ai paesi del Golfo (possibile che la Russia, che ha il pallino a Damasco, faccia da mediazione? Della collaborazione di Trump con Mosca s’è parlato spesso, e tutto sommato anche Riad e Abu Dhabi non hanno pessimi rapporti col Cremlino). O ancora in Yemen, dove anche lunedì una fregata saudita è finita sotto attacco da parte dei ribelli; una vicenda che ha ricordato quella della Swift, nave emiratina ridotta in fiamme dai separatisti yemeniti a ad ottobre scorso.
GLI ALTRI TEMI
Tra i temi, il coordinamento nella lotta al terrorismo: l’Arabia Saudita, che è già inserita nella Coalizione internazionale a guida americana che combatte contro lo Stato islamico, aumenterà il suo impegno. Riad avrebbe chiesto che Washington resti alla guida della coalizione, e Trump ha chiesto maggiore attività: è il riequilibrio trumpiano, noi diamo se riceviamo qualcosa in cambio. Discussa anche la necessità di limitare la potenza dell’Iran, minaccia su cui l’amministrazione americana è concentrata tanto quanto i sauditi, che con gli iraniani si vedono come mine ideologiche esistenziali (vedi alla voce sunniti contro sciiti) e potenze geopolitiche che si contendono il predominio sull’area più turbolenta del mondo. Domenica Teheran ha testato un missile balistico a medio raggio, e tutto somiglia a una azione provocatoria in risposta a Trump. Una fonte della Reuters ha raccontato all’agenzia che tra i temi trattati c’era pure la Fratellanza musulmana. Il gruppo politico pan-arabo è considerato un’organizzazione terroristiche in Arabia Saudita, dove ha cercato la destabilizzazione del wahhabismo regnante durante la Primavera araba, e pure negli Emirati Arabi (e in Egitto). Da giorni si parla della possibilità che anche Washington includa i Fratelli nelle liste terroristiche.
RIAD È INCASTRATA
Il Wall Street Journal scrive che Riad si trova in una posizione difficile dopo l’ordine esecutivo sul blocco degli ingressi emanato da Trump. I sauditi vorrebbero creare con l’amministrazione attuale una partnership migliore che con la precedente, quando Barack Obama isolò gli storici alleati anche firmando l’accordo sul nucleare con l’Iran. Allo stesso tempo però l’Arabia Saudita vuole elevarsi a guida del mondo musulmano e tesse rapporti di collaborazione con alcuni di quei paesi inseriti nel ban trumpiano, per esempio il Sudan e lo Yemen. Il Regno si trova nella posizione di dover respingere la decisione di Trump per continuare a essere un bilanciamento in Medio Oriente e un riferimento per l’Islam, sunnita; ma allo stesso tempo non può esporsi troppo per non indisporre Washington con cui sta ricostruendo relazioni importanti (la scorsa settimana il dipartimento di Stato americano ha dato il via libero alla vendita di palloni aerostatici da sorveglianza ai sauditi, contratto chiuso ai tempi dell’amministrazione Obama per 525 milioni di dollari). Intanto, passi sotto traccia: pare che i rettori di alcune università saudite stiano dando istruzioni per non accettare siriani e yemeniti.