Dopo gli attacchi a 360 gradi per l‘ordine esecutivo con cui gli Stati Uniti hanno vietato l’ingresso ai cittadini di sette paesi considerati a rischio terrorismo e rivisto le policy sull’accoglienza dei rifugiati, Donal Trump si difende. E per farlo sceglie la sua pagina Facebook (di solito è più attivo su Twitter, ma all’attacco). La nostra nazione è orgogliosamente fatta da immigrati (d’altronde lui stesso ha origini paterne tedesche e materne scozzesi), sono vicino al dramma dei siriani (lo scorso anno i principali richiedenti asilo in America, dopo i congolesi, perché vittime delle terribile guerra civile), ma il mio compito come presidente è tenere sicuro il nostro paese, “la terra delle libertà e la casa dei coraggiosi” (citando lo Star-Spangled Banner).
LA SPIEGAZIONE DI TRUMP
Lo statement di Trump è una spiegazione della sua decisione, che di certo non la rafforza, ma si rende necessaria perché le reazioni a caduta hanno fatto il giro del mondo e quello sul #MuslimBan è il più controverso degli ordini esecutivi (tutti in linea con le più importanti promesse elettorali) firmati in questa prima, iperattiva settimana da presidente. A partire dall’hashtag: Trump spiega che non è un provvedimento contro i musulmani, come “i media hanno falsamente riportato” (senza perdere l’occasione per attaccare nuovamente la stampa). “Ci sono oltre 40 diversi paesi nel mondo che sono a maggioranza musulmana, che non sono interessati da questo ordine” scrive il presidente, se non fosse che anche questa discriminazione nella discriminazione è stata oggetto di critiche: perché viene colpito il Sudan e non l’Arabia Saudita? Siamo sicuri che il Qatar sia immune dal terrorismo più dell’Iran, per esempio? In molti sostengono che nell’individuare i Paesi da inserire nella lista nera del “vietato l’ingresso” l’amministrazione americana abbia tenuto conto di logiche di convenienza: con il Qatar ci sono in piedi ottime relazioni economiche, e altre arriveranno, per questo i qatarioti sono “welcome” e gli iraniani “banned” (è nota anche la visione anti-iraniana di vari elementi di spicco dell’attuale inner circle presidenziale, e poi ci sono quei continui rimbalzi di contatti e complimenti con Israele, che considera Teheran un nemico esistenziale, per dire).
LA LISTA DI OBAMA
Dalla lista, allora il primo dato: dice Trump che i sette Paesi indicati nell’executive order (Iran, Iraq, Siria, Yemen, Somalia, Sudan, Libia) sono gli stessi individuati dall’amministrazione Obama come fonti di terrore; la cosa fu già molto criticata come discriminante. Si chiama Terrorist Travel Prevention Act, risale al 2015 (aggiornato a gennaio 2016) ed è una sorta di progetto per facilitare i visti da cui i cittadini possessori di doppi passaporti di quei Paesi furono esclusi: il dipartimento di Stato di John Kerry designò Iran, Sudan e Siria come Stati che sponsorizzano il terrorismo; la Homeland Security Libia, Somalia e Yemen come Paesi con “problemi” di terrorismo, e poi toccò all’Iraq designato speciale perché è la terra del Califfo. La legge precedente impediva anche l’ingresso negli Stati Uniti a cittadini di altre nazioni se avevano viaggiato prima in quei Paesi: è un provvedimento che ha una motivazione, la paura del terrorismo di ritorno. Un francese, per esempio, che era stato in Siria non poteva entrare negli Stati Uniti come misura preventiva: poteva aver combattuto con l’Isis per poi entrare in America e compiere un attacco terroristico; è il regolamento che a ottobre dello scorso anno impedì al fumettista italiano Zerocalcare di andare a un evento a New York perché nel 2015 era stato in Siria e Iraq a raccogliere informazioni per il suo libro “Kobane Calling” (la spiegazione della vicenda in un suo disegno). Questa cosa ha funzionato? Difficile dirlo, ma un dato è che Omar Mateen, il più sanguinoso degli attentatori dello Stato islamico che ha colpito negli Stati Uniti (a Orlando, giugno 2016), era un cittadino americano. O ancora, gli attentatori dell’11 Settembre venivano da Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi, Libano, e nessuno dei Paesi è inserito nella lista. Ora che cosa succede con Trump? Succede che le cose si inaspriscono, perché nessun cittadino di quei sette Paesi può più entrare negli Stati Uniti per 90 giorni, e nel frattempo le agenzie di sicurezza americane dovranno studiare le nazioni che non danno sufficienti informazioni sui cittadini richiedenti il visto, verrà dato tempo 60 giorni a questi stati per adeguarsi alle richieste americane, e poi la lista di chi non si adegua potrebbe sovrapporsi con l’attuale e crearne un’altra (permanente? Non è chiaro).
IL MESSAGGIO SBAGLIATO
Dice Trump che questo modo di operare è simile a quanto fatto nel 2011 da Barack Obama nei confronti dell’Iraq. Nel 2011 il dipartimento di Stato interruppe l’ingresso di immigrati iracheni negli Stati Uniti per sei mesi, ma non ci sono molte notizie a proposito. Obama scelse di rivedere le pratiche di “vetting”, la certificazione di bontà sul fatto che non fossero terroristi, degli iracheni, e sottopose anche chi era già nel Paese a verifiche. Il Washington Post ne fa un debunking e scrive che questo genere di paragone “è un po’ facile” perché la scelta di Obama fu dettata da contingenze specifiche, due rifugiati iracheni erano stati scoperti a fabbricare bombe, che avevano portato la Casa Bianca a pensare che qualcosa non andasse con le procedure di verifica. Inoltre, dice il WaPo, l’amministrazione Obama non annunciò pubblicamente che bloccare gli ingressi dall’Iraq sarebbe stata la propria policy, ci furono ritardi che non passarono inosservati, ma poi le cose ripartirono. E forse qui sta il punto: l’annuncio di Trump ha preso una via mediatica forte, che ne ha prodotto conseguenze pessime (pur rafforzando il feeling con la sua base elettorale più dura e pura). Una di queste conseguenze: il Wall Street Journal ha visionato un memo spedito in fretta (sabato scorso, il giorno dopo dell’ordine) dall’ambasciata americana in Iraq, dove il parlamento ha chiesto al governo azioni di ritorsione contro l’America. Nel documento sono contenute le preoccupazioni dei funzionari statunitensi, i quali dicono che la decisione di Trump potrebbe mettere a rischio i legami militari, economici e commerciali con l’Iraq: si pensi al grosso programma di intelligence, risorse e operativi, che gli Stati Uniti hanno in piedi a Baghdad, di sponda con gli iracheni, la cui collaborazione è cruciale nella lotta alla Stato islamico.
AZIONI SIMILI
Se si esclude infatti il disastroso messaggio diffuso a livello globale, la scelta di Trump non è effettivamente troppo lontana dalle policy restrittive finora in piedi negli Stati Uniti. Il presidente ha stoppato (anche) l’ammissione dei rifugiati per 120 giorni (da ogni Stato, non solo da quei sette) e previsto la revisione dei quantitativi che l’America è pronta ad accogliere ogni anno, portando il tetto dai 117 mila di Obama a 55 mila (gli ammessi da settembre, inizio dell’anno fiscale in corso, sono stati già circa 29mila), e spostando tra l’altro in cima ai requisiti per l’accettazione della domanda di asilo “la persecuzione religiosa” (ciò significa che tra un musulmano che vuole fuggire per esempio dalla guerra siriana e un cristiano verrà preferito il secondo). Come dimostra uno studio del Pew Research il numero dei rifugiati accolti dagli Stati Uniti è piuttosto fluttuante nell’arco della storia, con casi come il 2002 post-9/11 in cui si è fermato a 27mila e altri come il 1980 dove s’è superata quota 200mila. Nel 2016 furono 84995 ed è stato l’anno in cui Obama ne ha accolti di più di tutto il suo mandato: questo però nonostante il tetto fosse stato fissato più in alto di 25mila unità; nel 2016 sono entrati 39mila musulmani, considerato un numero record.
LA SIRIA: L’ESEMPIO
Su circa 15 mila rifugiati siriani inseriti in un programma di accoglienza iniziato nel 2012, tredicimila hanno avuto risposta definitiva soltanto negli ultimi mesi del 2016, mentre nei primi anni gli Stati Uniti ne hanno accettati cifre minime (dell’ordine delle decine di unità) per via dei lunghi processi di esame; media 2011, anno di inizio della guerra, 2015, intorno alle 305 persone all’anno, praticamente niente. Una cifra che comunque non è molto alta se paragonata alla potenzialità americane, e su questo hanno ruotato in passato le critiche dalle associazioni umanitarie. Ma in un sondaggio del 2016 il 54 per cento degli elettori registrati negli Stati Uniti ha detto di non ritenere le politiche di accoglienza come un aspetto prioritario dell’azione governativa; e il dato rappresenta una tendenza storica, dunque Trump è un unicum dal punto di vista mediatico, ma non lo è tanto se si tengono in conto i dati operativi. Adesso con Trump l’ingresso di rifugiati della Siria è stato definito “dannoso per gli interessi degli Stati Uniti” e sospeso a tempo indeterminato.
LE ESPULSIONI
Un altro dato critico ripreso da chi vede la risposta contro la decisione di Trump come una reazione isterica non basata sui fatti (“I fatti sono del tutto irrilevanti in questa storia, l’isteria liberal domina la scena, i giornali fanno la Óla, le televisioni ci inzuppano il biscotto e via così in uno show dove i fatti sono del tutto secondari”, ha scritto Mario Sechi) riguarda le espulsioni. Sul suo List Sechi riporta un fatto, incontrovertibile, che esce dai dati del dipartimento della Homeland Security e che conferma le tendenze americane sull’argomento immigrazione: negli anni in cui ha amministrato Obama ci sono state 2.786.865 espulsioni di cittadini clandestini, nonostante politiche di regolarizzazione. Un numero che si avvicina notevolmente ai tre milioni di rimpatri annunciati in campagna elettorale da Trump (e che, anzi, potrebbe essere addirittura superiore perché il riferimento va dal 2008 al 2014). Sull’altro lato: sta tornando a circolare un op-ed scritto dal generale intellettuale David Petraues, eroe del Sunni Awakening che debellò per un periodo al Qaeda in Iraq. Nel pezzo scritto a marzo del 2016 sul Washington Post l’ufficiale che per un periodo è stato in predicato per ricoprire alti incarichi all’interno dell’amministrazione Trump, indica la dialettica anti-musulmana del Trump ancora candidato, con accento sulla volontà dichiarata di impedire gli ingressi, come un elemento di rischio per i processi di radicalizzazione. Ricorda su Twitter l’ex premier italiano Enrico Letta, uno dei primi politici (o ex) italiani ad alzare la voce contro quello che anche lui definisce (a scopo politico?) il “Muslim Ban”, che un anno fa anche il vice-presidente Mike Pence, allora governatore dell’Indiana, aveva definito le dichiarazioni di Trump a proposito del provvedimento reso esecutivo venerdì scorso offensive e incostituzionali.