“C’è un impatto destabilizzante, sono saltati i parametri di analisi, ma non credo che questo sia sufficiente per dire che l’America di Donald Trump si stia ribellando al mondo che lei stessa ha creato”. Parola di Carlo Pelanda, professore, coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Guglielmo Marconi di Roma, che analizza con Formiche.net i primi passi dell’amministrazione Trump.
L’ETÀ DEL RIEQUILIBRIO
“Siamo entrati nell’età del riequilibrio”: il professore torna su quello che ritiene l’argomento cardine del momento di cui già aveva parlato in una precedente intervista su Formiche.net, gli Stati Uniti stanno rivendendo le proprie relazioni con il resto del mondo, “non è una cosa inventata negli ultimi mesi, è un processo già in corso cavalcato da Trump, però non è che questo significa che la Washington di Trump voglia cedere la propria posizione di leadership mondiale”. “Molto – spiega Pelanda – dipenderà dai rapporti con la Cina”. Ecco, la Cina: Michael Froman, il delegato che ha guidato i negoziati condotti da Barack Obama sulla Trans Pacific Partnership, ha detto al New York Times che la decisione presa da Trump di ritirare gli Stati Uniti dal trattato, ritenuta da alcuni un ritiro nazionalista da uno scenario nevralgico, è una “huge, huge” (grande, ripetuto due volte) vittoria per la Cina: è così?
LA CINA
“Partiamo dall’idea di fondo del Tpp: Obama voleva creare un perimetro commerciale contro la Cina, ma così facendo sapeva che le economie che ruotavano nell’area sarebbero state penalizzate, per primo il Giappone. E dunque ha pensato di costruire un sistema di accordi che garantisse un accesso privilegiato al mercato americano per i giapponesi, e che allo stesso tempo tenesse Nuova Zelanda e soprattuto Australia all’interno del sistema anglofono”, spiega il professore. “Ora il punto è questo: se gli Stati Uniti decidono di far saltare l’accordo è ovvio che si riduce per la Cina il pericolo della costruzione di un’area multilaterale di convergenza non solo economica, ma anche politica e militare”. Per questo, nel breve termine, secondo Pelanda può essere vero quello detto Froman. “Ma – aggiunge l’editorialista di Italia Oggi e Mf/Milano Finanza – è una mossa che si porta dietro molta apparenza, in quanto è improbabile che gli Stati Uniti lascino soli Australia e Giappone, anzi, innanzitutto va capito come i rapporti con Tokyo si svilupperanno: perché è chiaro che li vorranno rassicurare”.
EVITARE IL MULTILATERALISMO
Queste rassicurazioni secondo l’analisi di Pelanda si concretizzeranno nella costruzione di protocolli bilaterali con i singoli Paesi, realizzando di fatto “un blocco”: “Da sempre sono quelle a due le relazioni preferite dall’impero americano. Per esempio, quando nel 2007 Angela Merkel propose a George Bush di costruire un accordo comune per la regolamentazione dei mercati finanziari con l’UE, Bush rifiutò perché i suoi consiglieri gli fecero notare che chiudere un deal con l’Europa non era un approccio bilaterale ma multilaterale, e questo agli occhi americani implica una cessione di sovranità”.
IL BILATERALISMO E LA BREXIT
Scenario simile potrebbe succedere con il Regno Unito, e anche su questo rientra il discorso cinese: “La Cina aveva nella Londra di David Cameron l’alleato preferenziale, una via di accesso globale al mercato occidentale, ma ora le cose cambiano”. Mario Sechi nel suo List ha scritto che il percorso inglese, nonostante abbia un ulteriore ostacolo nel passaggio parlamentare deciso dalla Corte Suprema, ha trovato in Trump “un chiodo a cui appendere la Brexit”. “Sì, ma Trump vorrà prendersi tutta la piazza inglese: Theresa May venerdì andrà alla Casa Bianca in una posizione disperata, Londra si trova quasi nella condizione di doversi auto-annettere nell’anglo-sfera. May sul piano politico interno ha pochissimi spazi, andrà a Washington a chiedere una sponda, che Trump concederà, magari abbassando i costi doganali, ma saranno poche le cose pratiche perché il mercato che c’è è abbastanza liscio”, si giocherà più sull’influenza.
LA DOPPIA SFIDA DI TRUMP: ELETTORATO…
“La vera sfida per Trump sarà capire come strutturare questa serie di relazioni bilaterali, perché per il momento è evidente che nemmeno il suo team ha chiaro come muoversi”. Dunque le prime mosse sono più che altro prese di posizione, anche legate a strategie d’immagine? “Parliamoci chiaramente, sta passando l’idea di Trump come uomo forte (pochi giorni fa il leader politico del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo in un’intervista al francese Journale du Dimanche ha usato proprio questa espressione per sottolineare il suo apprezzamento nei confronti del presidente repubblicano e di Vladimir Putin, ndr), ma non è che lo sia così tanto. Era convinto di perdere, lo era lui e lo era il suo staff, e adesso annaspano. Si trova davanti promesse forti fatte in campagna elettorale, e almeno all’inizio dovrà cercare di far passare il messaggio che le sta mantenendo”.
…E PARTITO
Questo è anche un segnale che Trump sta lanciando al partito, con cui continua a vivere un rapporti non troppo sereno? “La situazione per immagini si può descrivere con il brindisi dedicato dallo speaker della Camera Paul Ryan, uno dei leader forti dei repubblicani, a favore del vice presidente Mike Pence durante il pranzo inaugurale di venerdì: era previsto, ma le parole e la forza con cui Ryan le ha pronunciate hanno il senso del peso del partito sull’amministrazione”. Ossia: “Il Gop sta dicendo a Trump che in questo momento accettano le posizioni critiche del presidente perché hanno da risolvere dei problemi di divisioni interne, ma appena possibile, diciamo appena dopo le prossime mid-term, lo riassorbiranno e lo faranno rientrare nel solco del partito”. “Tra l’altro – ricorda Pelanda – non dimentichiamo che molte delle scelte che hanno fatto scalpore finora, come il ritiro dal Tpp, o l’inizio delle attività contro l’Obamacare (ma anche il blocco delle assunzioni statali o il taglio delle tasse alle industrie, ndr) sono espressione di volontà espresse già dal Congresso: Obama sull’accordo commerciale asiatico era già stato bocciato dai legislatori, come pure abolire l’Obamacare sarà un’operazione che dovrà passare per Capitol Hill”.