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Fca, Ford, Volkswagen. Chi fa sgommare il neo protezionismo?

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Hanno tirato entrambi un sospiro di sollievo. Pierluigi Bersani da un lato, Giulio Tremonti dall’altro: in due distinte, ma contemporanee interviste a Repubblica e il Corriere della Sera. La lunga fase della globalizzazione se non è entrata in una fase preagonica, per lo meno ha perso tutta la sua forza propulsiva. Le conclusioni sono più o meno identiche anche se i percorsi di analisi profondamente diverse.

Per il primo è un po’ il ritorno all’antico. Scandito dalla necessità di far rivivere i vecchi valori della sinistra. La centralità del lavoro, garantito dai presidii dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Lo Stato che non solo fa fronte ai fallimenti del mercato, ma ridiventa il soggetto principe dell’economia. Un welfare che conserva i suoi principi universalistici, grazie alle ramificazioni di un sistema fiscale che non vanno smantellate. E poco importa se un altro intellettuale storico della sinistra italiana, come Biagio De Giovanni, dalle colonne del Mattino ci dice che quel mondo non esiste più. Che una “teoria di sinistra” non ha più “senso”.

Diverso il ragionamento di Giulio Tremonti, che da anni tuona conto il “mercatismo”. Una teoria che dal prevalente terreno economico si è progressivamente spostata sul fronte della politica e delle istituzioni. Depotenziandone il ruolo, fino a farlo quasi scomparire. Il mercato, in tutti questi anni, è stata la moneta buona – si fa per dire – che ha scacciato quella cattiva. Rendendo i presidii della democrazia e della sovranità popolare sepolcri imbiancati. Se tornare indietro è impossibile, occorre trovare le nuove forme che danno sostanza al bisogno di autogoverno, che rimane un’esigenza profonda ed ineliminabili del moderno. A difesa del quale – lo si è visto chiaramente nella vittoria del NO al referendum popolare – rimane una necessità incomprimibile.

Se questo è lo scenario, difficile negare un’accelerazione dei processi di scomposizione e ricomposizione dei vecchi equilibri internazionali. Trump non è Obama, con la sua fiducia nelle sorti progressive in trend storico che sembrava inarrestabile. E lo ha portato a sottovalutare l’emergere di problemi drammatici: dalla Libia di Gheddafi al dramma siriano. E a ritenere che quei piccoli incidenti non avrebbero avuto la forza di deviare il grande fiume di un progresso continuo ed inarrestabile. Trump dichiara, apertamente, di voler intervenire per impedire che i vuoti di potere, determinati dall’inazione politica, possano divenire il detonatore di situazioni ancor più gravi. Ecco allora la difesa dei confini dall’invadenza delle produzioni estere. Il riavvicinarsi alla Russia di Putin, cui si riconosce il peso di una grande potenza continentale. I toni ben più aspri nei confronti della Germania. Un contrasto latente che risale indietro nel tempo: agli anni ’90 – quelli della riunificazione ed ancora prima – ma sempre contenuto nel linguaggio felpato della diplomazia. Che di fatto ha lasciato a Berlino campo libero nel fare quello che l’establishment tedesco aveva deciso di fare. Fregandosene delle conseguenze scaricate sui propri alleati europei ed atlantici.

Fosse solo il ciclone americano: le relazioni economiche e finanziarie tra i diversi Stati ed all’interno della stessa Unione europea stanno cambiando rapidamente. Nessuna solidarietà per quanto riguarda il problema degli immigrati. Che ciascun Paese si pianga i propri drammi. Rallentamento di tutte quelle procedure – a partire dall’Unione bancaria – che avrebbero dovuto comportare elementi di mutualizzazione dei rischi relativi. Nuova intransigenza nel rispetto delle regole di Maastricht a prescindere dallo stato, come in Italia, dell’economia reale. Da tempo in deflazione. Insomma è il volto di un’Europa che si sta sempre più divaricando tra le opposte pulsioni che animano il Nord ed il Sud del Continente.

Ma fin qui è l’ordinaria amministrazione. Frutto del lento accumulo di contraddizioni maturate in lunghi anni di logiche spartitorie più che inclusive. L’elemento più drammatico è la novità della guerra commerciale che è esplosa, all’improvviso, nel settore dell’auto. Le vicende sono note. Iniziano dal caso Volkswagen, negli Usa, con la multa miliardaria a carico della società, per pratiche truffaldine relative ai fattori di inquinamento dei motori diesel. Per la verità veicoli pochi amati da sempre in un Paese che può permettersi il lusso della trazione a benzina, visti i bassi costi del carburante. Ma che Trump ha drammatizzato nel diktat imposto ad alcune case costruttrici, in procinto di fare investimenti all’estero. O producete negli USA, oppure imporremo dei dazi che renderanno proibitive le eventuali importazioni.

In Europa, la Germania ha preferito il fioretto, cercando di imporre alla Fiat il ritiro di quei modelli che fanno più concorrenza alla produzione nazionale: a partire dalla ‘500. In questo caso non siamo in presenza di pratiche analoghe. Non è montato alcun dispositivo che altera i risultati delle prove sul banco. Ma una “defeat device”, come viene definita in gergo, che serve per garantire il funzionamento del motore dopo un certo tempo trascorso dalla sua fase d’avviamento. In questa seconda ipotesi siamo al limite. Le regole comunitarie stabiliscono che il controllo antinquinante deve esser compiuto nei primi venti minuti, a partire dall’accensione del motore. Il dispositivo Fiat scatta solo qualche minuto dopo. Un trucco, un’elusione?, come sostengono i tedeschi. Rispetto della normativa europea, si risponde dall’Italia. Pronti, tuttavia a discutere su nuove regole, che dovranno, tuttavia, valere per il futuro.

A prescindere da caso specifico, l’intervento tedesco è un sintomo allarmante. Lascia intravedere il ricorso all’istallazione di barriere non tariffarie al libero commercio. Il lato più oscuro e nascosto del protezionismo. Se dovesse passare questo precedente, sarebbe il fiorire di altri mille fiori nei settori più svariati. Si è cominciato dall’auto solo perché questo è il settore più esposto. Esiste in ogni Paese una capacità di sovrapproduzione che spinge alla concorrenza oligopolista: taglio dei prezzi, ingenti investimenti in pubblicità – basta accendere la TV – concessione di garanzie accessorie e così via. Ecco quindi il segno più tangibile che qualcosa si è rotto nella presunta armonia di una globalizzazione guidata dai grandi centri finanziari. Occorre prenderne atto, per riflettere sulle possibili conseguenze. E sui necessari modi d’agire.

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