Dalli all’olio di palma. Da secoli gli essere umani ne fanno uso nel loro cibo. Da decenni l’industria alimentare se ne serve nei suoi prodotti. Poi all’improvviso qualche screanzato ha messo in giro la voce che l’olio di palma è un alimento nocivo. Così nella pubblicità dei prodotti alimentari è apparsa la scritta “senza olio di palma”. Il prodotto è stato bandito. Senza spiegazioni, ma come condizione perché le aziende continuassero a vendere. Una storia un po’ squallida, per fortuna con effetti meno gravi di quelli determinati dalla predicazione contro le vaccinazioni.
Lo stesso destino dell’olio di palma lo stanno correndo i voucher, uno strumento di retribuzione delle prestazioni accessorie che, dopo la loro liberalizzazione in tutti i settori, ha incontrato il favore e l’interesse del mercato del lavoro. Il numero di voucher equivalenti a 10 euro (di cui 2,5 euro di contribuzione sociale) complessivamente venduti dal 2008 al 31 dicembre 2015 è pari a 277,2 milioni per un importo complessivo di 2,8 miliardi di euro. La dinamica dei voucher venduti è stata particolarmente rilevante nel triennio 2013-2015 con incrementi annui attorno al 70%. Nel 2015 i voucher venduti sono stati 115 milioni per un importo complessivo di 1,15 miliardi di euro (dati Inps). Nel primi dieci mesi dell’anno in corso (gennaio-ottobre) sono stati venduti 121,5 milioni di voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio con un incremento rispetto allo stesso periodo del 2015 pari al 32,3%. Lo ha rilevato l’Osservatorio Inps sul precariato, ricordando, tuttavia, che nei primi dieci mesi dello scorso anno la crescita dell’utilizzo dei voucher, rispetto al 2014, era stata pari al 67,6% (e che quindi è in atto un trend di incremento meno dinamico). Il numero di committenti che hanno complessivamente acquistato buoni lavoro dal 2008 al 31 dicembre 2015 è pari a 930.578. Il numero di lavoratori che hanno svolto attività di lavoro accessorio tra il 2008 e il 2015 in uno o più anni risulta pari a 2.508.131.
Considerando i dati annuali, si registra che dai 25.000 lavoratori coinvolti nel 2008 si è passati a poco meno di 1,4 milioni nel 2015. Questo fenomeno viene definito “mostruoso” e indicato come la nuova dimensione del precariato, al punto che, in massa, le anime belle si iscrivono tra i killer pronti ad abolire le normative vigenti sul lavoro accessorio, tramite il referendum made by Cgil. Ovviamente i talk show soffiano sul fuoco, come se i dati – che congiungono lavoro e retribuzione – fossero di per sé inquietanti, un furto di lavoro regolare. Eppure, l’ammontare medio di voucher percepiti nel 2015 è corrisposto a 478 euro netti nell’arco di 12 mesi. Essendo il valore della mediana pari a 29 voucher riscossi, la metà dei prestatori di lavoro accessorio ha incassato in un anno 217 euro netti. Soltanto il 2,2% dei prestatori (circa 30.000) ha percepito, l’anno scorso, più di 330 voucher con un guadagno netto di 2.250 euro. Come tutto ciò potrebbe tradursi in assunzioni a tempo indeterminato non è dato sapere. Basterebbe invece consultare un workshop dell’Inps dedicato al lavoro accessorio per individuare anche le tipologie dei prestatori.
Primo gruppo: i pensionati. Nel 2015 i pensionati hanno superato quota 100.000 prestatori: sono raddoppiati rispetto al 2010 ma sono pur sempre una frazione minima (largamente sotto l’1%) rispetto all’universo dei pensionati italiani. Si tratta in prevalenza (75%) di pensionati di vecchiaia/anzianità; nei restanti casi si tratta o di pensione indennitaria/invalidità/inabilità o di pensione ai superstiti. L’età media, sempre superiore ai 60 anni, tende a diminuire: dai 64,5 anni del 2010 si è scesi ai 61,8 del 2015. La quota delle donne, sempre comunque minoritaria, è salita progressivamente dal 20% del 2010 al 31% del 2015. Sotto il profilo della distribuzione territoriale i prestatori pensionati sono particolarmente rilevanti nel Nord Est: oltre il 40% del totale nazionale (ma fino al 2013 superavano il 50%).
Secondo gruppo: gli attivi (lavoratori o percettori di ammortizzatori sociali). È il gruppo più numeroso, annovera dal 2013 oltre il 50% del totale dei prestatori: nel 2015 ha superato i 750.000 lavoratori coinvolti. Comprende chi ha una posizione attiva in un’altra gestione assicurativa (in maggioranza si tratta di iscritti al Fpld nei restanti casi di iscritti alle gestioni autonome Inps ovvero dipendenti pubblici professionisti iscritti a una Cassa), con rapporto di lavoro in essere ovvero in Cig o beneficiari di indennità di disoccupazione a seguito della perdita del lavoro. L’età media è pari a 35,1 anni; dal 2012 le donne rappresentano la quota maggioritaria superando, seppur di poco, i maschi. In valori assoluti l’area del Nord Est rimane quella di maggior rilievo (quasi un terzo del totale). All’interno di questo gruppo si distinguono (sempre facendo riferimento ai dati 2015): 1) 250.000 prestatori che hanno percepito indennità di disoccupazione o sono stati beneficiari di cassa integrazione (quasi tutti hanno comunque nel medesimo anno percepito anche retribuzioni di lavoro; come vedremo i percettori esclusivi di ammortizzatori sociali sono una minoranza: circa 24.000 nel 2015); 2) quasi 400.000 prestatori che hanno svolto nel medesimo anno attività di lavoro alle dipendenze di imprese private extra-agricole; 3) circa 100.000 altri lavoratori: confluiscono in tale aggregato i dipendenti pubblici, gli operai agricoli, i lavoratori domestici, i lavoratori autonomi etc. Con riferimento ai dipendenti privati e agli indennizzati (tralasciando il gruppo marginale dei cassintegrati) possiamo analizzare in che tipo di “carriere lavorative” si inserisca la prestazione di lavoro accessorio. Emerge che l’insieme di prestatori in esame è complessivamente costituito da: 1) occupati part-time, circa il 45% del totale; 2) lavoratori full-time a tempo determinato o stagionali, poco meno del 30%; 3) lavoratori con impiego standard, e cioè full-time a tempo indeterminato, poco più del 20% (di questi, circa uno su cinque ha impiego continuo, cioè full-year); 4) prestatori che hanno percepito solo l’ammortizzatore (quota residuale). In sostanza si evidenzia una netta associazione tra lavoro accessorio e carriere lavorative discontinue o a orario ridotto.
Terzo gruppo: i silenti. Si tratta di oltre 300.000 prestatori per i quali il lavoro accessorio, pur non costituendo l’unica esperienza lavorativa della vita, risulta comunque la fonte esclusiva di reddito da lavoro nell’anno osservato. L’età media risulta in tendenziale crescita (36,6 anni nel 2015, tre anni in più rispetto al 2010) mentre la quota di donne, sempre maggioritaria, ha oscillato tra il 54% del 2010 e il 57% del 2015. Questo gruppo include sia situazioni di disoccupazione di lunga durata (anche post ammortizzatori) sia situazioni afferenti a soggetti che cercano un rientro (anche parziale) nel mercato del lavoro. Per circa il 40% dei silenti l’ultima posizione assicurativa attiva risale all’anno immediatamente antecedente e per un altro 20% la distanza dalla precedente esperienza lavorativa (o dal periodo di disoccupazione indennizzata) è attorno ai due anni. In definitiva per la maggioranza dei silenti (circa il 60%) la distanza dalla precedente esperienza di lavoro è contenuta: due anni o meno. All’opposto, per circa un prestatore su sei il lavoro accessorio rappresenta il rientro dopo un periodo di assenza di lunga durata (oltre 5 anni).
Quarto gruppo: i prestatori privi di posizione previdenziale. È il gruppo costituito dai soggetti privi di posizione assicurativa diversa dai voucher: quasi 200.000 nel 2015, sestuplicati rispetto al 2010. Per essi il lavoro accessorio ha costituito (finora) l’unica esperienza lavorativa tout court, dato che nelle banche dati Inps compaiono solo come percettori di voucher. Nella maggior parte dei casi si tratta di esordienti anche in tale modalità di attività lavorativa (nel 2015 il 72% è al primo anno di prestatore di lavoro accessorio). Si tratta di un insieme di lavoratori sempre più giovani, con un’età media continuamente ridottasi dai 28,3 anni del 2010 ai 22,6 del 2015. Anche la femminilizzazione è aumentata: l’incidenza delle donne è salita dal 45% del 2010 al 58% del 2015.
Quanto ai soggetti utilizzatori le aziende dell’industria e del terziario con dipendenti, che utilizzano anche prestatori di lavoro accessorio sono circa 246.000: di esse oltre la metà sono attive nei due settori “Alberghi e ristoranti” (75.000) e “Commercio” (53.000). Le aziende industriali che hanno utilizzato lavoro accessorio sono state 41.000: il gruppo relativamente più numeroso è quello delle aziende alimentari. Quanto alle aziende del settore delle costruzioni, quasi 14.000 hanno utilizzato lavoro accessorio. Da notare infine che questo primo insieme di committenti (aziende dell’industria e del terziario con dipendenti) pesa sul complesso dei committenti per il 52% in termini di numerosità ma per il 76% in termini di voucher pagati. Relativamente all’agricoltura, aggregando le aziende agricole con operai e gli agricoli autonomi, i committenti di lavoro accessorio risultano 16.000. Decisamente più numeroso è l’insieme dei committenti formato da artigiani e commercianti senza dipendenti: si tratta di 65.000 soggetti. Infine un ultimo gruppo di 145.000 committenti, che rappresenta il 31% dei committenti a cui è riconducibile il 17% dei voucher riscossi, risulta equamente diviso tra persone giuridiche e persone fisiche. Le persone giuridiche includono, in quote non ancora precisabili, committenti pubblici e datori di lavoro che sono senza dipendenti ma che utilizzano le varie tipologie di iscritti alla gestione separata (collaboratori, professionisti senza cassa previdenziale, voucheristi). Quanto alle persone fisiche, si può stimare (quale ordine di grandezza) che circa il 10% siano datori di lavoro domestico e altrettanti siano professionisti con cassa previdenziale (soprattutto: avvocati, medici, ingegneri). L’importante quota residua è riconducibile in larga parte all’operatore-famiglie.
A fronte di questi dati il workshop dell’Inps considera marginale l’influenza di un secondo lavoro: “Chi pensa che il lavoro accessorio – è scritto nel dossier – sia rilevante come secondo lavoro di soggetti già ben presenti ed inseriti nel mercato del lavoro, con un rapporto di impiego ben strutturato, non trova certo conforto nei numeri”. Ci permettiamo di dubitare di tale considerazione. E’ sufficiente esaminare le stime dell’Istat sulla consistenza del secondo lavoro. Sono quasi 5 milioni gli italiani che aggiungono un’altra attività ad un lavoro principale. Un lavoratore su cinque in Italia ha un doppio lavoro e se il primo è regolare il secondo spesso non lo è affatto, ma è in nero. Lo rivelano l’analisi dei dati Istat, mettendo a confronto il numero degli occupati ufficiali nei diversi settori con le posizioni lavorative registrate, regolari e non. Il confronto è tra i 24.838.000 occupati ufficiali in media d’anno del 2009 e 29.617.000 posizioni lavorative registrate, le quali manifestano 4.779.000 eccedenze, che equivalgono appunto ai quasi 5 milioni di italiani che hanno un doppio lavoro.
Il secondo lavoro, in tempi di crisi, per molti è diventato una necessità, per il bisogno di integrare un reddito che è sempre più scarso. Nell’esercito dei doppiolavoristi, poi, vi sono anche dei cassintegrati o persone in mobilità, il cui assegno mensile è a sua volta decurtato. La maggior parte dei lavoratori con doppio lavoro sta nei servizi, con oltre 3,5 milioni di persone che svolgono attività plurime, un valore dieci volte superiore a quello dell’industria, che registra 340.000 doppiolavoristi ufficiali. Sono invece quasi 900.000 nell’agricoltura, in cui prevalgono anche gli auto-produttori, cioè coloro che lavorano la terra per gli altri e in più hanno anche un loro orto da accudire. Ma quelli del secondo lavoro e del sommerso si trovano nel commercio, negli alberghi, nei pubblici esercizi e nei trasporti, che insieme fanno salire la percentuale a quasi il 80%. Sono soprattutto trasporti e comunicazioni (quasi un lavoratore su due) e alberghi e pubblici esercizi (con il 42% di doppio lavoro) le praterie dei secondo-lavoristi. Come si può vedere, si tratta di settori in cui lavoro doppio e nero coincidono più facilmente. Negli alberghi, nei ristoranti e nei bar i doppiolavoristi sono 900.000 (2,1 milioni di posizioni lavorative contro 1,2 milioni di occupati). Nel lavoro domestico in famiglia quasi due terzi degli occupati ha un secondo lavoro e la stessa percentuale del 65% riguarda il lavoro irregolare. Ma se colf e badanti sono protagoniste per necessità, dovendo arrotondare con più datori di lavoro, anche il pubblico impiego non scherza, in considerazione del tempo libero di cui dispone. Nelle costruzioni, poi, la percentuale di doppiolavoristi ufficiali è solo del 13%.
Questi dati – ad avviso di chi scrive – contribuiscono a spiegare in grande parte il fenomeno della crescente diffusione dei voucher. Non è un caso, infatti, che sia il secondo lavoro che la diffusione dei voucher si concentrino più o meno nei medesimi settori. Quando non sono in nero come è pensabile che vengano retribuiti tali lavori? Non vi può essere solo una sommatoria, ma anche una coincidenza dei medesimi soggetti. Oppure dobbiamo ritenere che il conto dei lavoratori sia come quello degli aerei di Mussolini? I velivoli seguivano il Duce nei suoi spostamenti nei diversi aeroporti. Ma erano sempre gli stessi.