Se è vero quello che Gian Antonio Stella, informato – credo – dal deputato bersaniano Davide Zoggia o direttamente dall’interessato, ha scritto sul Corriere della Sera riferendo dell’ultima riunione dell’assemblea nazionale del Pd, la responsabilità di questa benedetta o maledetta scissione in arrivo da tanto tempo è di un usciere della sede nazionale del partito, al Nazareno. Che respinse al mittente qualche tempo fa un pacchetto indirizzato all’ex segretario Pier Luigi Bersani, considerando “sconosciuto” il destinatario.
Certo, lo sgarbo c’era tutto. Quell’usciere, se non vogliamo risalire più in alto, a qualche impiegato o funzionario, magari insofferente per l’atteggiamento sempre più critico di Bersani verso il segretario in carica, con quelle faccende ripetute all’infinito del tacchino sul tetto o della mucca di destra vagante nella sede del partito senza che nessuno se ne accorgesse, come d’altronde Bersani non s’era accorto – per rimanere alla sua metafora – della mucca grillina salita per le scale del Nazareno ai tempi suoi; quell’usciere, dicevo, andrebbe individuato e licenziato in tronco.
Ma un libro respinto maleducatamente al mittente non poteva e non potrà mai bastare a spiegare ciò che sta accadendo in queste ore al partito centrale per gli equilibri del Paese, come una volta era la Dc. Non può spiegare un suicidio, come lo ha giustamente definito Romano Prodi condividendo gli argomenti di Enrico Letta e un po’ anche di Walter Veltroni, il primo segretario del Pd. Che all’assemblea nazionale del partito ha pronunciato domenica un discorso assai nobile, che sarebbe stato sprecato in bocca ad un presidente – fortunatamente mancato – della Lega calcio di serie A.
Veltroni tuttavia ha dimenticato di avere dato anche lui un contributo alla falsa partenza del suo Pd. Ciò avvenne, in particolare, quando egli, disattendendo per primo la cosiddetta vocazione maggioritaria, intesa come volontà di non farsi più condizionare da troppi o troppo esosi alleati, si apparentò alle elezioni politiche del 2008 con Antonio Di Pietro. Che poi, sempre con il consenso di Walter, mise in piedi gruppi autonomi nel Parlamento per esasperare il suo forte giustizialismo e contribuire dopo meno di due anni alla crisi della segreteria Veltroni nel Pd.
Sì, lo so, queste sono cose che possono risultare sgradite a sentirsele dire, o rinfacciare, ma sono fatti realmente accaduti, non inventati.
E’ ugualmente un fatto accaduto il rifiuto opposto nel 1998 da Massimo D’Alema al ricorso alle elezioni anticipate chiesto da Prodi, appena disarcionato da Palazzo Chigi per iniziativa della sinistra bertinottiana. Il voto, vista anche la rottura non ancora ricomposta a destra fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, avrebbe potuto permettere alla coalizione di centrosinistra dell’Ulivo di ottenere la maggioranza, affrancandola dai condizionamenti dell’estrema sinistra. Ma D’Alema, smanioso di emancipazione atlantica e partecipazione all’intervento della Nato nei Balcani, preferì farsi il suo bravo governo portando al Ministero della Difesa il neo-cossighiano, ed ex berlusconiano, Carlo Scognamiglio. Ed ora proprio D’Alema ha aperto le danze della scissione del Pd per rinverdire – come dicono a sinistra – la stagione o l’albero dell’Ulivo prodiano. Ci sarebbe da ridere se fossimo in un teatro. E nemmeno, visto che la sinistra dichiaratamente ulivista si è riunita recentemente a Roma proprio in un teatro per cantare “Bandiera Rossa” e inneggiare alla “Rivoluzione Socialista”, mentre a Rimini i vendoliani cantavano “l’Internazionale”.
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Storiaccia per storiaccia, voglio raccontarvi quest’altra che circola negli ambienti parlamentari per spiegare la gran paura delle elezioni amministrative di fine maggio o giugno che si attribuisce a Matteo Renzi: una paura tale da averlo indotto ad accelerare sulla strada del congresso per anticiparle ed evitare il filotto al biliardo di cui vi ho scritto qualche giorno fa. Il filotto cioè di una sconfitta datata 2017 dopo quelle già accumulate da Renzi nelle amministrative dell’anno scorso e nel referendum costituzionale del 4 dicembre. Un filotto destinato a precludere all’ex presidente del Consiglio la strada di una conferma alla segreteria.
Tutto comincia il giorno in cui scappa a Renzi o a qualche suo amico l’idea di prepararsi alle elezioni amministrative di quest’anno, che riguarderanno città come Genova, Alessandria, Asti, Piacenza, Parma, Padova, Verona, Macerata, L’Aquila, Taranto, Catanzaro, Palermo e altre ancora, una squadra robustissima di candidati. Ed esce fuori il nome di Pier Luigi Bersani come auspicabile aspirante a sindaco di Piacenza, dove proprio le divisioni all’interno del Pd fra renziani e bersaniani hanno più volte terremotato la giunta uscente di centrosinistra guidata da Paolo Dosi.
La cosa arriva alle orecchie di Bersani, cui si attribuisce la stessa reazione procuratagli dal pacchetto speditogli da un amico e respinto con la dicitura del “destinatario sconosciuto”. L’ex segretario non avrebbe gradito, pur con tutto l’amore che l’uomo di Bettola ha per il capoluogo della sua provincia e gli oltre centomila abitanti. Non solo Bersani non avrebbe gradito, ma qualche seminatore di zizzania avrebbe riferito di avere sentito mormorare l’ex segretario del Pd di non avere nessuna voglia di aiutare il suo ormai avversario interno a uscire indenne dalle elezioni amministrative di quest’anno.
E’ un po’ come fece nel lontano 1985 l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, che si disimpegnò dalla campagna referendaria promossa dai comunisti contro i tagli antinflazionistici alla scala mobile dei salari, nella speranza che dalle urne uscisse sconfitto l’ingombrante presidente socialista del Consiglio Bettino Craxi. Che riuscì invece a vincere minacciando di dimettersi se avesse perduto la verifica referendaria sul suo famoso decreto di San Valentino dell’anno prima.
Vero o non vero che sia, pare che Renzi, informato degli umori elettorali, diciamo così, di Bersani per le amministrative abbia temuto di ripetere l’esperienza del referendum di dicembre, con le minoranze del partito schierate contro a viso addirittura aperto, ed abbia deciso di sterilizzare le votazioni comunali facendosi rieleggere prima segretario del partito con le primarie e il congresso.
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Figuratevi adesso, con la scissione del Pd alle spalle, di dimensioni ancora incerte mentre scrivo, che cosa potrà uscire a sinistra dalle urne comunali di primavera, alle quali manca solo la data precisa. Per non parlare dei due referendum sui voucher, i buoni cioè dei lavori occasionali, e sulle garanzie per i dipendenti delle aziende subappaltatrici. E per fortuna la Corte Costituzionale ha risparmiato al governo il referendum tentato dalla Cgil di Susanna Camusso contro la nuova disciplina dei licenziamenti.