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Che cosa succede fra Walter Veltroni e Matteo Renzi?

Walter Veltroni e Paolo Gentiloni

Intervistato da Eugenio Scalfari, che lo aveva già convinto a partecipare all’ultima riunione dell’assemblea nazionale del Pd eletta nel 2013, Walter Veltroni ha commentato con un’immagine apocalittica il fallimento del tentativo compiuto di evitare la scissione del partito che gli capitò di fondare una decina d’anni fa, e di guidare per meno di due.

L’ex sindaco di Roma, oltre che ex segretario del Pd, nonché ex segretario dei Ds all’epoca del primo governo di Massimo D’Alema, ex vice presidente del Consiglio con Romano Prodi, ex ministro dei Beni culturali, sempre con Prodi, e prima ancora ex direttore dell’Unità, con la quale ha ripreso generosamente a collaborare di domenica anche per scongiurarne l’ennesima uscita dalle edicole, ha definito “scissione dell’atomo” quella che si è appena consumata nel suo partito.

Scalfari, come si è notato nel video della sua Repubblica, ha sorriso all’immagine mescolandosi forse ai più che, considerate solo le dimensioni dell’atomo, pensano che sia una cosa ridicola cercare e riuscire a spaccarlo. E invece la scissione dell’atomo, signori miei, produce tali e tante energie da sfociare nella bomba atomica.

Non so se volesse alludere anche a questo il buon Veltroni, come temo considerando l’apocalittico quadro politico ch’egli ha giustamente descritto, dal suo punto di vista, come effetto della frantumazione della sinistra. Che in una settimana si è spaccata e ritrovata in cinque partiti, se non ne seguiranno altri nei prossimi giorni. Tutto ormai è possibile da quelle parti.

I cinque partiti di sinistra, l’ultimo dei quali porta la vecchia sigla DP di Mario Capanna, chiamandosi però non Democrazia Proletaria ma Democratici e Progressisti, con tutte le maiuscole naturalmente al loro posto, combinati col ritorno al sistema elettorale proporzionale faranno tranquillamente raggiungere al movimento 5 Stelle di Beppe Grillo il primo posto nella graduatoria delle forze politiche. E il conseguente diritto a rivendicare e a ottenere dal capo dello Stato l’incarico di tentare la pur improbabile – assai improbabile – formazione del nuovo governo nella diciottesima legislatura. Improbabile, a causa della “diversità” che impedirebbe ai grillini di allearsi con altri per fare maggioranza in Parlamento.

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Solo un miracolo potrebbe consentire il sorpasso elettorale su Grillo ad opera di quello che fu il centrodestra, anch’esso però terremotato dal sistema elettorale proporzionale. Che consentirebbe alle varie componenti di presentarsi ciascuna per conto suo, salvo il diritto del partito più votato di indicare il premier, come ha appena proposto Silvio Berlusconi augurandosi naturalmente che la sua Forza Italia raccolga più consensi della Lega di Matteo Salvini.

Riesce tuttavia difficile immaginare come e quando, dopo le elezioni, il presidente della Repubblica potrà trovare in quello schieramento una persona alla quale affidare l’incarico di presidente del Consiglio. Per fare quale governo, con chi altri – perché in ogni cosa neppure il centrodestra sarebbe autosufficiente – e con quale programma?

L’idea “forte” di Berlusconi per tenere unito con le buone o le cattive il suo vecchio mondo politico e trovare appoggi esterni è quella di far girare gli italiani con due tipi di moneta in tasca: l’euro e la lira, come i nostri padri e nonni dopo la seconda guerra mondiale furono per un po’ abituati dalle truppe statunitensi di occupazione a fare con le lire e le am lire. Am come americane.

Non dico di più perché, pur avendo Berlusconi garantito ai suoi l’esistenza di tecnici ed economisti convinti che questa strada sia praticabile, mi viene francamente più da sorridere che da riflettere.

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E’ meglio tornare, restando con i piedi per terra, alle riflessioni di Veltroni nell’intervista a Scalfari per rilevare una novità – almeno così mi è apparsa – rispetto al discorso da lui pronunciato all’assemblea nazionale del Pd.

Allora ebbi la sensazione, magari sbagliata, ch’egli tirasse più per Renzi, appena dimessosi da segretario per avviare il percorso del congresso, che per i suoi avversari interni, decisi ad andarsene, come Pier Luigi Bersani e l’assente Massimo D’Alema, o tentati dal rimanere per continuare a fargli la guerriglia, anzi la guerra interna, come ha finito per decidere Emiliano. Che al ruolo di candidato alla segreteria ha appena aggiunto quello ancora più pesante di testimone nelle indagini in corso alla Procura di Roma, dove mercoledì egli mostrerà e spiegherà gli sms conservati dal 2014 – pensate un po’ – sui rapporti con l’attuale ministro renziano Luca Lotti, con l’imprenditore Carlo Russo e col padre di Renzi, Tiziano, tutti indagati per gli acquisti miliardari della pubblica amministrazione gestiti dalla Consip.

Ora che la scissione è avvenuta, pur deplorandola e rimanendo nel Pd, Veltroni ha detto di Renzi, figlio naturalmente, che “doveva fare molto di più per impedirla”. In particolare, par di capire che dovesse fare come lo stesso Veltroni nel 2009, quando l’allora segretario del Pd dimettendosi davvero, non per cercare di essere poi confermato, preferì al la sua carriera politica -egli ha detto- l’unità del partito.

In effetti il Pd allora rimase unito ma per finire, dopo un breve interregno di Dario Franceschini, nelle mani di quel Bersani che nella campagna elettorale del 2013  si propose di “smacchiare” così bene il “giaguaro” Berlusconi da fargli sfiorare la vittoria. E soprattutto non si accorse dalla valanga grillina, che egli cercò poi – povero illuso – di contenere con l’offerta, sdegnosamente respinta dal comico genovese, di un appoggio esterno, o qualcosa di simile, ad un governo “minoritario e di combattimento”. Un governo che naturalmente Bersani voleva guidare, ma che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non gli permise.

Ricordo tutto questo per la cronaca. Non parlo di storia perché sarebbe troppo. E non tanto per i fatti in sé, sicuramente notevoli, ma per le persone.


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