Il vice segretario del Pd Lorenzo Guerini, che Matteo Renzi chiama scherzando “Arnaldo” perché ne paragona lo stile a quello dell’ex segretario della Dc Forlani, non mi è sembrato preoccupato per la sortita di Giorgio Napolitano contro la corsa alle elezioni anticipate. Continuate a battervi?, gli ho chiesto incrociandolo a Montecitorio. “Certo”, mi ha risposto sorridendo amichevolmente. Ed ha tirato dritto. Come Giulio Andreotti sapeva fare in certe circostanze sorprendendo chi lo considerava sempre paziente e pronto al compromesso per uscire da una stretta, o da un angolo. E Guerini, 50 anni compiuti il 21 novembre scorso, già sindaco di Lodi, a dispetto dell’Arnaldo che gli dà ironicamente Renzi, proviene proprio dalla corrente democristiana di Andreotti.
Non è tipo, evidentemente, il vice segretario del Pd da lasciarsi impressionare, anche se le dichiarazioni del presidente emerito della Repubblica una certa impressione negli ambienti parlamentari l’hanno provocata, specie se correlate alle minacce di scissione, proprio contro le elezioni anticipate, che si sono levate dall’interno del Pd con la voce del “riservista” Massimo D’Alema. Che è un ex dirigente comunista molto noto a Napolitano, al posto del quale nel 2006 stava per andare al Quirinale. E vi sarebbe forse riuscito se all’ultimo momento dall’area del centrodestra Pier Ferdinando Casini, reduce dall’esperienza di presidente della Camera, non avesse proposto alla sinistra la candidatura meno divisiva proprio di Napolitano. E con questo il mio amico Pierferdy tolse dagli impicci anche Silvio Berlusconi, consigliato da Giuliano Ferrara di favorire invece D’Alema ma trattenuto dalla paura di compiere un passo troppo ardito agli occhi dei suoi elettori.
D’Alema naturalmente ci rimase male. E non lo nascose alla prima occasione che gli capitò. Occasione offertagli, se non ricordo male, da Bruno Vespa nel salotto di Porta a Porta, dove fra il mancato presidente della Repubblica e l’ex presidente della Camera si consumò uno scontro durissimo, naturalmente attorno ad una questione diversa dalla corsa al Quirinale svoltasi nei mesi precedenti. Gli addetti ai lavori capirono benissimo.
Ormai, lo so, sono storie di altri tempi, anche se in fondo sono trascorsi da allora solo undici anni, nove dei quali passati da Napolitano al Quirinale fra il primo mandato e una piccola fetta del secondo conferitogli dalle Camere nel 2013.
L’avversione di Napolitano alle elezioni anticipate, cui anche lui peraltro dovette ricorrere nel 2008, quando Romano Prodi si trascinò appresso la legislatura nella caduta del suo secondo e ultimo governo di cosiddetto centrosinistra, è nota. Non è la prima volta che “Re Giorgio” perora la causa della conclusione ordinaria delle legislature. Ma è la prima – credo – in cui si è lasciato scappare di dire che “nei paesi civili si fa così”, come se fosse da incivili ricorrere al voto anticipato, quando “mancano le condizioni – ha detto – per continuare ad andare avanti”.
Ma chi decide quando non si può più “andare avanti”? Il potere di sciogliere anticipatamente le Camera è del presidente della Repubblica. E Napolitano, già rammaricato dello scioglimento impostogli nel 2008 dalle circostanze, a soli due anni dal suo arrivo al Quirinale, non ne volle sapere di replicare nel 2011, quando cadde l’ultimo governo Berlusconi, sotto i colpi di mister Spread, e l’allora capo dello Stato varò in tutta fretta il governo tecnico di Mario Monti: con il consenso –debbo ricordare – dello stesso Berlusconi, che poi se ne pentì e gridò, con i suoi, al colpo di Stato.
Ma ora non è Napolitano il presidente della Repubblica. Al Quirinale siede Sergio Mattarella, per rispetto del quale forse il predecessore avrebbe dovuto questa volta trattenersi dall’esprimere il proprio giudizio.
Permettete comunque ad un anziano giornalista che ha seguìto per una vita la politica di sospettare che a Napolitano abbia fatto saltare la mosca al naso soltanto la fretta di Renzi di andare alle urne. Ancora di più forse lo ha colpito il modo in cui il segretario del Pd sta correndo in quella direzione.
Già nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale, per la cui approvazione egli si spese anche a costo di raccogliere i soliti insulti dai soliti critici ed avversari, il presidente ormai emerito della Repubblica contestò all’allora presidente del Consiglio di inseguire Beppe Grillo sulla strada di quella che lui chiama “antipolitica”. In particolare, Napolitano avrebbe gradito che il ridimensionamento del Senato fosse motivato non con la necessità di ridurre le spese e tagliare duecento e più seggi di Palazzo Madama, ma con la necessità solo di rendere più efficiente il sistema parlamentare, senza il doppio voto di fiducia, le competenze legislative perfettamente uguali delle due Camere e le navette su cui viaggiavano e continueranno ora a viaggiare disegni e proposte di legge.
Ora Renzi è scivolato sulla stessa buccia di banana indicando come primo e più visibile effetto di un ricorso anticipato alle urne la benefica perdita del vitalizio da parte dei numerosi parlamentari di prima nomina. Fra i quali va ricordato che ci sono tutti i grillini, anche se Grillo formalmente è più scatenato di Renzi nella corsa alle urne.
Se questa è stata davvero la mosca saltata sul naso di Napolitano, che non ha mai voluto fare da sponda alle campagne antiparlamentari e anti-sistema dei grillini, si potrebbe capire e persino condividere la sua reazione, per quanto questa si presti purtroppo ad essere scambiata per un soccorso ad altre campagne politiche: quelle delle minoranze del Pd contro un segretario arrivato al suo posto non con un colpo di mano ma con procedure regolarissime, cioè con tanto di primarie e di congresso. Un segretario – debbo aggiungere – al quale Napolitano al Quirinale diede tanto credito da consentirgli di dare una ruvida spallata al governo dell’amico e compagno di partito Enrico Letta, che uscì di scena con una sbrigativa e risentita cerimonia di passaggio del campanello del Consiglio dei Ministri diventata ormai famosa. Era bastata, per la crisi, una deliberazione della direzione del partito. Non vi fu alcun rinvio del governo uscente alle Camere per un dibattito chiarificatore.