Per quanto a sua insaputa, pure lui, Beppe Grillo con le gesta dei suoi “portavoce”, a loro volta inconsapevoli, è riuscito a battere il festival canoro di Sanremo, che pure ha superato il 50 per cento di ascolti: un festival dove Maurizio Crozza, altro eccezionale comico, si è messa la parrucca del presidente della Repubblica, ha licenziato Paolo Gentiloni a sorpresa e ha conferito in diretta Palazzo Chigi alla coppia conduttrice al teatro Ariston, Carlo Conti e Maria De Filippi. Alle cui spalle tutti immaginano, rispettivamente, il segretario pro-tempore del Pd Matteo Renzi e il presidente a vita di Forza Italia Silvio Berlusconi.
E’ portentoso il risultato delle nozze fra lo spettacolo e la politica. Eppure quel pessimista di Massimo D’Alema è convinto che non vi sia nulla di cui divertirsi in un Paese che siede semplicemente “su una polveriera”, come ha detto in un’intervista a Repubblica. Che è lo stesso giornale da lui accusato anche di recente di avere troppo difeso Renzi. Evidentemente glielo ha perdonato, a tal punto da preferirlo ad altri quotidiani per affidargli l’annuncio che, allontanandosi il rischio, secondo lui, delle elezioni anticipate a giugno, ha potuto rinunciare al progetto della scissione a sinistra, dove tuttavia egli si sarebbe ugualmente e miracolosamente considerato un uomo di centro, inteso forse come moderato.
Ora che ha deciso di restare nel Pd, almeno sino al prossimo ripensamento, D’Alema appare disposto a dare una mano ai compagni impegnati a rimuovere Renzi dalla segreteria prima delle elezioni, alle quali ha raccomandato comunque di arrivare con una legge elettorale che eviti la sciagura o il pericolo del premio di maggioranza alla coalizione, raccomandato invece dal ministro Dario Franceschini, la cui corrente è allo stato delle cose decisiva per gli equilibri interni di partito. Basterebbe ed avanzerebbe invece un “premio ragionevole alla lista più votata”. Poi il nuovo segretario del Pd saprebbe ben lui come scegliere gli alleati di governo nel nuovo Parlamento, con un occhio – almeno uno – probabilmente rivolto più a sinistra che a destra. Dove c’è ancora troppa voglia, e persino possibilità, di tornare a comandare per fidarsene.
Non manca un tocco decisamente personale, e persino autocritico, nella intervista di D’Alema. Che, in particolare, ha assolto Renzi dall’accusa o dal sospetto di tanti dalemiani che non avesse voluto mandare tre anni fa a Bruxelles l’ex presidente del Consiglio per il ruolo, poi conferito a Federica Mogherini, di alto commissario per la politica estera che l’Unione Europea peraltro non ha.
“I grandi paesi – ha detto D’Alema, forse precedendo le rivelazioni che Renzi aveva promesso di fare a tempo debito, per difendersi dalle accuse dei dalemiani, e che deve avere inserito nel libro impegnatosi a scrivere per la Feltrinelli- non vogliono un ex capo di Stato in una funzione di quel tipo”.
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In verità, D’Alema nel suo lungo, anzi lunghissimo curriculum non può vantare un’esperienza di “capo di Stato”. Vi andò in qualche modo vicino nel 2006, quando si candidò al Quirinale dopo avere mancato l’obiettivo della presidenza della Camera, dove Romano Prodi aveva preferito sostenere l’elezione di Fausto Bertinotti per coprire a sinistra le spalle del governo di centrosinistra che si accingeva a formare.
Il professore emiliano aveva ingenuamente provato a evitare l’esperienza di Palazzo Chigi di dieci anni prima, durata meno della metà della legislatura proprio per lo sgambetto fattogli dalla parte bertinottiana della sinistra: esperienza destinata invece a ripetersi, anche se alla fine il colpo di grazie l’avrebbe dato a Prodi, dimettendosi, il suo guardasigilli Clemente Mastella.
Quella di D’Alema al Quirinale fu una candidatura pesante, almeno per le abitudini del Parlamento sia della prima sia della seconda Repubblica, accomunate dall’interesse a mandare sul colle più alto di Roma personalità poco coinvolte nei giochi di partito. Era stata fatta nel 1964 un’eccezione per Giuseppe Saragat, il cui Psdi però era troppo piccolo per fare paura. Un’altra eccezione era stata fatta ancor prima, nel 1962, per il democristiano Antonio Segni, che –guarda caso- aveva svolto solo due dei sette anni del suo mandato presidenziale, interrotto da un ictus paralizzante.
Le possibilità di D’Alema nel 2006 di scalare il Quirinale dipendevano solo dalla disponibilità di Silvio Berlusconi ad aiutarlo, come aveva già fatto una decina d’anni prima per la presidenza della commissione bicamerale per la riforma costituzionale. Ma Berlusconi, per quanto consigliato in quella direzione dall’amico Giuliano Ferrara, già compagno di partito di D’Alema, non se la sentì di esporsi sino a quel punto con i propri elettori. A togliere le castagne dal fuoco al Cavaliere fu tuttavia Pier Ferdinando Casini, che propose la candidatura di Giorgio Napolitano, poi felicemente eletto.
D’Alema, quindi, è stato nella storia politica dell’Italia capo del governo, non dello Stato. Ma evidentemente “i grandi Paesi” dell’Unione non lo hanno gradito a Bruxelles nelle vesti di alto commissario della pur improbabile politica estera europea neppure come ex presidente del Consiglio.
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Ma torniamo all’inizio di questi graffi per spiegare perché Grillo ha battuto Crozza, o i grillini il Festival di Sanremo. Per capirlo basta vedere le prime pagine dei giornali, dominate dall’ennesimo, clamoroso incidente dell’amministrazione capitolina a 5 Stelle.
La sindaca Virginia Raggi è riuscita a capovolgere formule vecchie di settant’anni e più di politica non accettando, ma respingendo “con riserva” le dimissioni di un assessore: quello all’Urbanistica –non da poco in una città come la Capitale- Paolo Berdini. Che, già in dissenso da lei nella gestione della pratica del nuovo Stadio della società e squadra di calcio della Roma, si è avventurato a parlare in termini non esaltanti della stessa Raggi in una conversazione per strada registrata da un giornalista della Stampa e mandata in rete dopo le prime smentite dell’interessato.
Poiché la Raggi esce dalle parole di Berdini come una “impreparata”, “circondata da una banda” e legata sentimentalmente a Salvatore Romeo, quello delle polizze a inconsapevole beneficio dell’amica, indagato pure lui dalla Procura e reduce da un lungo interrogatorio, la vicenda è esplosa, all’interno e all’esterno del movimento grillino, con un ascolto che ha fatto impallidire persino il festival, appunto, di Sanremo.