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L’energia nucleare è oggi un problema o una soluzione per l’Europa?

pil, energia nucleare

Più la prima cosa che la seconda, verrebbe da dire. Almeno a giudicare da quello che sta accadendo in Francia in questi ultimi tempi.

Andiamo con ordine, e partiamo dai fatti. Dopo l’incidente giapponese di Fukushima nel marzo 2011 e la conseguente ondata di allarme che ha attraversato l’opinione pubblica europea, il governo di Angela Merkel decise di varare una politica energetica radicalmente nuova (“Energiewende”), basata sullo sviluppo della produzione da fonti rinnovabili e sulla chiusura pianificata e progressiva di tutte le centrali nucleari entro il 2023. Decisione che, nonostante le forti contestazioni mosse dall’industria nucleare tedesca che ne ha dovuto subire i pesanti costi, è ora in corso di realizzazione. Decisione analoga, ma molto meno traumatica, fu quella che in qualche modo subì per mano dell’opinione pubblica il governo italiano, che (per la seconda volta, dopo il referendum del 1987) dovette abbandonare il progetto di una rinascita del nucleare, e che portò pertanto il nostro paese a proseguire sulla strada dello sviluppo delle rinnovabili.

Diverso il caso della Francia, che ha da 40 anni nel nucleare non solo la fonte principale della propria energia (58 reattori per l’80% dell’energia prodotta, un caso unico al mondo) ma anche una delle più importanti industrie nazionali (per occupazione, PIL, e esportazioni) e che stava proprio in quegli anni completando la realizzazione dei primi impianti di ultima generazione, i cosiddetti EPR, che promettevano di garantire a costi accettabili degli standard di sicurezza molto più elevati che in passato. La Francia ha pertanto in questi anni proseguito sulla propria strada, lungo la quale ha però trovato più di una brutta sorpresa. Anzitutto i costi dei primi EPR si sono moltiplicati per 3-4 volte rispetto alle previsioni, tanto che i primi due costeranno circa 10 miliardi di euro l’uno e, sebbene dovessero funzionare già da anni, sono tuttora in costruzione tra mille problemi. In secondo luogo i 58 reattori esistenti stanno esaurendo i 40 anni di vita prevista, e si pone quindi l’alternativa tra il loro ammodernamento e la loro chiusura. Senonché entrambe le opzioni stanno facendo emergere costi elevatissimi (stimati dalle autorità di controllo in circa 90 miliardi di euro per ciascuna delle due soluzioni) e grandi incognite: nel primo caso (allungamento della vita a 60 anni) per il costo di adeguamento ai nuovi standard di sicurezza post-Fukushima, mentre nel secondo caso (chiusura) per il costo dello stoccaggio profondo delle scorie.

In terzo luogo, infine, è accaduto che alcuni controlli effettuati proprio sull’EPR in costruzione in Francia (a Flamanville, in Normandia) hanno rivelato rischi di fragilità del guscio del reattore, rischi poi estesi a dodici impianti nucleari francesi già in funzione, che nel corso degli ultimi mesi sono quindi stati improvvisamente fermati per effettuare i necessari controlli di sicurezza. Questo ha portato a rischi di black-out e a prezzi dell’elettricità elevatissimi in Francia, che per la prima volta nella sua storia ha dovuto dipendere dall’import dalla Germania e dall’Italia, dove per fortuna in questi anni abbiamo realizzato moderni e flessibili impianti a gas, normalmente utilizzati per far fronte ai picchi di domanda e per complementare la produzione da fonti rinnovabili (sostituendosi cioè al vento o al sole quando questi vengono meno) e che questa volta hanno invece sostituito l’energia nucleare francese, dalla quale siamo stati per decenni dipendenti. Da ultimo, forse perché “se la fortuna è cieca, la sfortuna invece ci vede benissimo”, l’esplosione della settimana scorsa nella centrale nucleare di Flamanville, per un malfunzionamento elettrico che non ha coinvolto il reattore nucleare.

Per decenni il nucleare è stato l’asso nella manica dell’economia francese: ha consentito di non dipendere dalle importazioni di idrocarburi e dalle tecnologie straniere, ed ha dato occupazione e grandi quantità di energia pulita a costi molto competitivi per imprese e famiglie. Ma oggi lo scenario appare capovolto: costi crescenti e poco controllabili, segnali di rischio per la sicurezza, e infine grandi taglie e forte rigidità di esercizio che si integrano male con le produzioni disperse e poco prevedibili delle fonti rinnovabili (che viceversa hanno costi calanti) e con una domanda stagnante per la crisi e per la crescente efficienza energetica nei consumi. Il governo francese che uscirà dalle urne tra un paio di mesi avrà dunque scelte difficili da compiere anche in campo energetico, poiché avrà fondamentalmente davanti a se l’alternativa tra il rilancio e il ridimensionamento di questa grande filiera industriale nazionale. Il rischio è che questa decisione venga presa come spesso accade in politica ipotecando il domani pur di non pagarne il prezzo nell’oggi, e che sia solo la prospettiva di nuove grandi commesse nucleari a dettare l’agenda. La speranza è invece che prevalga il buon senso del detto “non tenere tutte le uova in uno stesso paniere”, e che la Francia realizzi una graduale diversificazione del proprio mix di produzione (“transition énergétique”), rendendolo più bilanciato, flessibile e resiliente, cioè più adatto alla volatilità di questa nuova era, e che sviluppi finalmente un mercato dell’energia più aperto concorrenziale e integrato con l’Europa, a beneficio anche nostro.


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