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Il futuro della ricerca pubblica italiana secondo il Cnr di Inguscio

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Questa mattina nell’aula Marconi del palazzo del Consiglio Nazionale delle Ricerche si è fatto il punto sullo stato dell’arte della ricerca pubblica in Italia. Relatori della conferenza dal titolo “La ricerca pubblica italiana: risultati, obiettivi e risorse”, il professore Massimo Inguscio, presidente della Consulta dei Presidenti degli Enti Pubblici di Ricerca, e il professore Gaetano Manfredi, Rettore dell’Università Federico II di Napoli e presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane.

NEGLI ULTIMI DUE ANNI INVERSIONE DI TENDENZA: PIÙ FONDI ALLE UNIVERSITÀ

Il quadro emerso è quello di un sistema che sta lentamente tornando a respirare dopo anni di tagli lineari. L’ultima legge finanziaria ha messo a disposizione delle Università italiane un “tesoretto” di 450 milioni di euro, fondi nelle disponibilità degli enti di ricerca ma non ancora impiegati. “Negli ultimi due anni abbiamo osservato un’inversione di tendenza nell’erogazione di fondi destinati alla ricerca sia per gli Enti pubblici di ricerca che per le Università”, ha detto Inguscio. “L’inversione di tendenza si è manifestata, per quanto riguarda il Cnr, nell’assegnazione costante di fondi e in un aumento del numero di ricercatori attraverso opportuno recruiting. Gli anni precedenti hanno riservato al Cnr un taglio di 60-70 milioni di fondi”. A fare eco a Inguscio, il Rettore della Sapienza Eugenio Gaudio: “I tagli lineari previsti dall’allora ministro Tremonti hanno causato 7 anni di disinvestimenti nelle Università che hanno perso il 10% dei loro fondi. Le Università italiane già partivano da livelli più bassi rispetto a Francia, Regno Unito, Spagna e Germania. Per fare un esempio se in Italia in ricerca si spende 100, in Germania si spende 300. I valori si invertono se si parla di gioco d’azzardo. Potremmo dire che la Germania punta sul futuro e l’Italia sulla sorte. Investire in conoscenza in un mondo post industriale è l’unica strada di uscita dalla crisi. E poi dobbiamo mettere a frutto il patrimonio umano che abbiamo a disposizione, la produttività dei nostri ricercatori è altissima anche se vengono pagati circa la metà di quanto sarebbero pagati nel resto d’Europa”.

LA PRODUTTIVITÀ DELLA RICERCA SI BASA SUL LAVORO VOLONTARIO

Nel 2015 l’Italia ha speso in Ricerca e Sviluppo l’1,3% del suo Pil, la media europea è del 2,03 e nel 2020 l’Europa si è data come obiettivo quello di arrivare al 3%. Le esigue risorse messe a disposizione dei ricercatori italiani non bastano, però, a fare in Italia ricerca di qualità. “A fronte delle ben note difficoltà nel reclutamento di giovani laureati, nell’invecchiamento del corpo docente così come nella carenza di investimenti infrastrutturali, l’Italia si posiziona tra il settimo e l’ottavo posto al mondo per pubblicazioni scientifiche e citazioni in riviste scientifiche” – ha detto il Rettore dell’Università Federico II di Napoli Gaetano Manfredi. “Anche dal punto di vista del reclutamento di giovani ricercatori abbiamo visto un’inversione di tendenza. Quest’anno siamo riusciti ad assumere circa 3mila ricercatori grazie al piano di reclutamento straordinario. Certo non basta perché dobbiamo anche difenderci dall’aggressività degli altri Paesi europei”, ha detto Manfredi. L’efficienza dei ricercatori italiani, però, non è solo merito delle spiccate capacità formative del sistema scolastico italiano e dell’abilità delle Università di scegliere i migliori. Dietro quella produttività c’è anche tanto “lavoro volontario” degli studiosi italiani. “La produttività della nostra ricerca è dovuta, anche, al lavoro degli assegnisti di ricerca e al lavoro volontario dei nostri ricercatori. Il volontariato è una risorsa di valore per le Università italiane”, ha commentato Manfredi aggiungendo che “È necessario, però, aprire le giuste opportunità professionali per gli studiosi che lavorano nelle Università per evitare che la logica del volontariato si trasformi in logica dello sfruttamento”.

PRONTO UN MILIARDO PER LA RICERCA SPAZIALE

Ottime notizie arrivano dall’Asi, l’Agenzia italiana che si occupa delle ricerche spaziali. “Nei prossimi tre anni l’Agenzia, che si occupa di finanziare programmi più che di fare ricerca, avrà a disposizione 1 miliardo di euro. I fondi sono per il 60% pubblici e per il 40% privati e saranno incanalati verso progetti che abbiamo sbocchi commerciali”, ha detto il Presidente Roberto Battiston – “Abbiamo aumentato il nostro organico di 16 ricercatori di cui 3 rientrati dall’estero, sono piccoli numeri ma sono fondamentali per noi. L’Italia oggi ha un’opportunità che non può lasciarsi scappare, può occupare lo spazio lasciato libero in Europa dall’uscita della Gran Bretagna. Non deve lasciarsi spaventare perché il rischio è il declino, occorre ricordare che da 2008 abbiamo perso 1 miliardo di investimenti e 10mila ricercatori. L’ultima cosa che possiamo permetterci è la paura”. L’Italia, del resto, ha occupato un posto di rilievo nel programma Copernicus, partorito dalla collaborazione tra Ispra e Asi. “La ‘space economy’ ha la possibilità di investire 1 miliardo e 200 milioni in filiera lunga e corta”, ha sottolineato Bernardo De Bernardinis, presidente dell’Ispra, secondo cui “l’industria 4.0 ha necessità di alzare il livello della conoscenza e solo una ricerca ben finanziata può consentirlo”.

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