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Il (pericoloso) mito dell’auto-sufficienza

Nel 1933 John Maynard Keynes pubblica un controverso articolo intitolato National Self-sufficiency. In quello scritto Keynes, con cinico realismo, suggerisce di ridurre qualsiasi effetto dell’interdipendenza fra i paesi, e di avvicinarsi il più possibile ad un modello produttivo di autosufficienza nazionale. Siamo nel 1933: negli Stati Uniti è l’anno peggiore della Grande Depressione e Roosevelt, da poco insediato alla Casa Bianca, sta per lanciare il New Deal. Guardando all’Europa: in Germania finisce la Repubblica di Weimar e va al potere Hitler; in Italia Mussolini assume le redini dei Ministeri dell’Aeronautica, della Marina e della Guerra, e lancia il progetto imperialista di muovere guerra all’Etiopia; in Spagna sta per scoppiare la guerra civile. Il mondo si prepara alla Seconda Guerra Mondiale.

Recentemente (il 18 gennaio scorso), un economista e politologo francese, Jacques Sapir, ha cantato sul suo blog Carnet Russeurope le lodi – Le protectionnisme, notre avenir – dell’articolo di Keynes del 1933 per la sua capacità di ispirare una lettura e delle ricette di politica economica adeguate alla situazione odierna, data la svolta protezionista di Trump e (s’immagina) la Brexit (http://russeurope.hypotheses.org/5604http://). Qualche giorno dopo, l’articolo è stato ripreso e tradotto in italiano dal sito Vocidallestero (http://vocidallestero.it/2017/01/24/trump-e-lattualita-di-keynes-il-nostro-futuro-e-nel-protezionismo/).

Quando lo stesso Keynes scriveva (nel 1936): “Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose al di fuori di quelle. Gli uomini della pratica, i quali si ritengono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro”, forse non osava immaginare che quasi cent’anni dopo sarebbe stato egli stesso il protagonista di questo revival dell’articolo del 1933. Naturalmente, Keynes non era uno “scribacchino”. È stato uno degli economisti più geniali ed innovativi di tutti i tempi. Ma la grandezza di un intellettuale si misura nel suo tempo, non in assoluto. E soprattutto, magari, su altre tematiche.

Che le sue ricette di politica economica espansiva funzionino meglio in un sistema macroeconomico chiuso è ampiamente noto (le fughe di capitali possono mettere a repentaglio l’equilibrio di bilancia dei pagamenti, i moltiplicatori possono finire per alimentare domanda estera tramite le importazioni, etc), tanto è vero che nella Prefazione all’edizione tedesca della General Theory, del 1936, Keynes inneggiava al Terzo Reich come condizione ottimale per tentare gli esperimenti di espansione della domanda per i quali è diventato universalmente noto.

Ma Keynes parlava per conto di una potenza con alle spalle un impero. Difendeva gli interessi dell’Inghilterra di fronte a potenze che ne minacciavano la sua egemonia economica e finanziaria. Quando Sapir scrive “politiquement, le Libre-Échange est dangereux”, probabilmente non si rende conto di quanto possa essere pericolosa l’adozione generalizzata di una strategia dell’autosufficienza. L’autosufficienza è adeguata per un’economia di guerra. O che sta per entrare in guerra. O ancora per un’economia dotata di colonie ed imperi disposti ad accettare di servire la madrepatria delle risorse necessarie ad essere “autosufficiente”. Quanti dei vecchi paesi del Commonwealth sarebbero oggi disposti a cedere a prezzo di costo le loro materie prime per sostenere il sogno secessionista e di autosufficienza della Gran Bretagna? E quante ex-colonie francesi in Africa, Asia e America Latina sarebbero disposte a fare altrettanto per sostenere la grandeur francese?

Ora, che Keynes sia ancora attuale, pur con alcuni limiti, non c’è alcun dubbio. Ma non certo il Keynes di National Self-sufficiency; perlomeno: non ancora, anche se noi stessi abbiamo da poco sottolineato i rischi di una diffusione generalizzata delle recenti scelte protezioniste e isolazioniste (http://formiche.net/2017/01/21/limperialismo-di-ritorno/). Se pensiamo di essere arrivati al punto di dover assumere la posizione di Keynes del 1933, e che già oggi non vi siano alternative, meglio scappare subito in qualche isola della Polinesia (magari non francese), nella speranza di sopravvivere con la pesca e le noci di cocco al prossimo olocausto nucleare.

Può darsi che, anche grazie agli intellettuali pronti a scavare nel passato per trovare autorevoli fonti a sostegno del loro atteggiamento suicida, si ritorni alle condizioni di tensioni interne ed internazionali degli anni Trenta. Per adesso, credo faremo meglio a guardare ad un altro Keynes: quello che ci ricorda l’importanza della collaborazione internazionale, il ruolo delle aspettative nelle scelte d’investimento, quello dei consumi nella formazione della domanda. Sperando sia chiaro come, al mondo d’oggi, solo a livello (quantomeno) europeo, e non nazionale, sia possibile avere un’efficace politica keynesiana. Cerchiamo, per adesso, di batterci per questo.

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