‘’Scippata’’ del referendum sull’articolo 18 per effetto della sentenza della Consulta, la Cgil ha aperto la campagna elettorale per sostenere i quesiti superstiti, pur continuando a dichiarare i suoi esponenti che i referendum sono strumentali a realizzare gli obiettivi che sono contenuti nel progetto di legge di iniziativa popolare, pomposamente denominato la “Carta dei diritti universali del lavoro”.
Di questo progetto ho già avuto occasione di scrivere sottolineandone l’ampiezza e anche la presunzione, in quanto si propone di riscrivere di sana pianta il diritto del lavoro. Siamo andati, allora, alla ricerca della disciplina del licenziamento (individuale e collettivo) come vorrebbe la Cgil. In prima battuta, l’articolo 18 made in Cgil (in realtà nel Pdl è contrassegnato dall’articolo 83 e seguenti) assume la reintegrazione come forma generale del sistema sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo, soluzione esattamente inversa a quella del Jobs act (e alla legge Fornero). La reintegra viene, infatti, prevista, come regola, non solo per il licenziamento nullo – perché discriminatorio; ritorsivo; in concomitanza col matrimonio o dello stato di gravidanza o inizio delle pratiche adottive; per altri casi di nullità previsti dalla legge o perché determinato da motivo illecito – bensì anche per:
– il licenziamento disciplinare, quando c’è insussistenza del fatto posto alla base della presunta giusta causa o del presunto giustificato motivo soggettivo; oppure quando il fatto non è imputabile al lavoratore o è sanzionato con altra misura dal contratto collettivo o dal giudice;
– il licenziamento per l’assenza di un giustificato motivo oggettivo (o per l’assenza di motivi economici);
– il licenziamento (ingiustificato) per inidoneità psichica o fisica, o per mancato superamento del periodo di comporto;
– il licenziamento inefficace perché comunicato a voce o per vizio di forma: in senso stretto (esempio quando il licenziamento disciplinare non è stato preceduto da una lettera di contestazione degli addebiti, o quando il licenziamento per motivo economico non è stato preceduto dalla procedura davanti alla Direzione territoriale del lavoro, o quando è stato comunicato senza motivazione) o in senso lato (il licenziamento disciplinare non è stato contestato tempestivamente, o contiene una motivazione generica).
Tali regole valgono per tutti i datori di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti, e in questo si supera la tradizionale linea divisionale dei 15 dipendenti (divisione che comunque anche per la legislazione vigente, Jobs act incluso, non vale per i licenziamenti discriminatori, nulli e orali, per i quali c’è comunque sempre la reintegra).
Il testo introduce due possibili eccezioni per:
1. I datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti, in relazione ai licenziamenti disciplinari, se: comunque risulta che il lavoratore ha commesso un fatto di particolare gravità, anche se non tale da giustificare il licenziamento; c’è un vizio di forma ma nella sostanza il licenziamento sarebbe giustificato. In queste due ipotesi il giudice ha la facoltà di scegliere tra la reintegrazione o una condanna che lascia al datore la possibilità, alternativa, di risarcire il danno pari alle retribuzioni perdute dal licenziamento alla sentenza (con un minimo di 5 mensilità) più 15 mensilità;
2. Tutti i datori di lavoro, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, al di fuori dell’ipotesi in cui viene accertata l’insussistenza delle ragioni poste a base del licenziamento.
Nelle altre ipotesi, e nel caso in cui è violato l’obbligo, per il datore, di trovare una soluzione occupazionale alternativa (anche in mansioni dignitosamente inferiori) viene lasciata al giudice la facoltà di scegliere tra la reintegrazione o (con obbligo di specifica motivazione di questa seconda scelta) la condanna a un’indennità risarcitoria da 12 a 48 mensilità, che per i datori con meno di 10 dipendenti diventa da 6 a 36. Per determinare l’ammontare di questa indennità il giudice deve considerare diversi fattori legati alla capacità economica dell’impresa, alle condizioni familiari del lavoratore, a quelle del mercato locale del lavoro, al comportamento delle parti.
Con l’ordine di reintegrazione si ripristina il rapporto e conseguentemente l’obbligo retributivo (dedotto quanto percepito con altro lavoro prima della sentenza di reintegra) e contributivo, “fino all’effettiva reintegrazione”. Le stesse conseguenze retributive e contributive valgono in caso di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato; ciò anche nei confronti dell’utilizzatore di un contratto di somministrazione.
È anche previsto che il giudice condanni il datore al pagamento di una somma ulteriore, non restituibile, in caso d’inosservanza o ritardo nel procedere all’effettiva reintegrazione, non inferiore alla retribuzione globale di fatto dovuta per il periodo di mancata reintegrazione. È da segnalare che nel caso di nullità del licenziamento è prevista la sanzione aggiuntiva del pagamento di una somma variabile da una a tre mensilità al Fondo adeguamento pensioni.
Nel caso, poi, di licenziamento discriminatorio, si prevede anche che il giudice debba ordinare la pubblicazione della sentenza; un disposto che ha l’evidente finalità di superare gli ostacoli posti dalla giurisprudenza a rendere effettivo ed esecutivo l’ordine di reintegrazione. È infine previsto che il lavoratore che vuole fare una causa per ottenere la reintegrazione debba promuovere preventivamente un tentativo di conciliazione davanti alla Direzione territoriale del lavoro.
Quanto al licenziamento per motivi oggettivi viene estesa a tutte le aziende, a prescindere dal numero dei dipendenti, la procedura di conciliazione prevista dalla legge n.92/2012 limitatamente ai datori di lavoro di maggiori dimensioni occupazionali (più di 15 dipendenti nel territorio corrispondente alla ex provincia, o più di 60 a livello nazionale) che intendono effettuare fino a quattro licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (per più di cinque la procedura applicabile è quella della legge n. 223/91). Il Jobs act (Dlgs. n.23/2015) aveva abolito tale procedure per gli assunti dopo il 7 marzo 2015.
Il progetto di legge, nella parte riguardante la riforma del licenziamento collettivo, determina un allargamento dell’area di applicazione della procedura di confronto sindacale (ora riguardante imprese anche con più di dieci dipendenti, mentre prima coinvolgeva solo quelle con più di 15 dipendenti) e realizza uno stretto collegamento del licenziamento collettivo con le ragioni poste a monte (“la riduzione o trasformazione di attività o lavoro”). Ciò consente, ad avviso della Cgil, a tutti gli interessati, e soprattutto al giudice, di verificare la verità/effettività delle circostanze dichiarate dal datore di lavoro e l’esistenza di un coerente nesso di causa tra le ragioni organizzative e i lavoratori da licenziare.
A carico dell’impresa che licenzia è posto l’obbligo della ricollocazione dei lavoratori licenziati presso le imprese collegate, la formazione/riqualificazione professionale, l’affidamento dei licenziati ad enti specializzati per la ricerca di un nuovo lavoro, l’aggiunta al trattamento di disoccupazione, l’accompagnamento alla pensione. È inoltre previsto il ripristino della reintegra sul posto di lavoro in tutte le ipotesi di violazione della normativa e dunque: per insussistenza dei fatti e dei motivi posti alla base del licenziamento; nel caso di violazione delle procedure di consultazione sindacale (e/o di finta trattativa); di violazione dei criteri di scelta dei licenziandi (nei casi di discriminazione, di mancato rispetto dei carichi familiari, dell’anzianità aziendale, della professionalità in quanto erroneamente dichiarata non più utile); di mancanza del piano sociale o di omessa trasmissione dello stesso alla Direzione territoriale del lavoro; di mancanza di forma scritta dei licenziamenti. Come si vede, siamo “alla fantasia al potere’’.
In sostanza, la proposta della Cgil pretende di modificare profondamente la disciplina del licenziamento, sia individuale sia collettivo. Si tratta di una revisione che ingesserebbe il sistema, in modo inaccettabile. Ma è comunque una proposta più articolata di quella che sarebbe emersa nell’ipotesi di ammissione del quesito sul licenziamento e di un suo successo nella consultazione. Paradossalmente è dubbio che, in un’ipotesi diversa da quella verificatasi (ovvero se la consultazione fosse stata ammessa), il Parlamento avrebbe potuto evitare il referendum, adottando pari pari le richieste della Cgil. Probabilmente, la Corte di Cassazione non avrebbe considerate esaustive le modifiche. In ogni caso bisogna augurarsi che la Carta della Cgil non venga mai presa in considerazione, se non si vuole trasformare l’Italia in un Paese in cui ai lavoratori sono riconosciuti i più avanzati diritti mai concepiti da mente umana, ma non ne godono perché sono disoccupati; e le aziende chiudono e gli imprenditori che possono farlo, emigrano.