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Matteo Renzi, Pierluigi Bersani e la rottamata disciplina di partito

Entrato nella buvette di Montecitorio, vedo solo soletto, e un po’ imbronciato, Guglielmo Epifani, 67 anni a marzo, deputato del Pd, presidente della commissione Attività produttive, ex segretario generale della Cgil, segretario del partito nel 2013, fra le dimissioni dell’amico Pier Luigi Bersani e l’elezione di Matteo Renzi. Lo avvicino non per un’intervista ma per una chiacchierata che mi aiuti a capire se ci sono margini per evitare la scissione dalla quale i bersaniani sono tentati, anzi tentatissimi, per protesta contro il congresso “cotto e mangiato”, come Bersani ha definito quello in tempi brevi proposto lunedì da Renzi alla direzione. Cui seguirà domenica una riunione decisiva dell’assemblea nazionale.

Dico a Epifani, che ha appena ordinato un caffè, che in fondo il Pd si trova alle prese con lo stesso problema avvertito dalla Dc alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, quando ci fu una rivolta contro il decisionismo di Amintore Fanfani, arrivato a sommare le cariche di segretario del partito, di presidente del Consiglio e persino di ministro degli Esteri. Eppure nessuno dei suoi critici ed avversari minacciò mai la scissione.

Il caffè è arrivato ma Epifani non lo beve. Preferisce rispondermi prima con una smorfia contro il paragone fra Renzi e Fanfani e poi dicendo che la Dc era un’altra cosa, avendo un sistema di regole più certo, più forte.

Sono tentato di ricordargli le polemiche sui tesseramenti democristiani, cioè sui morti che risultavano ancora iscritti. E le cui tessere servivano a misurare la consistenza delle varie correnti. Ma per non infangare – lo ammetto- la storia della Dc, che non si può ridurre ai tesseramenti disinvolti, così come la storia della cosiddetta prima Repubblica non si può ridurre a quella di Tangentopoli, esplosa 25 anni fa con le inchieste giudiziarie note come Mani pulite, ricordo ad Epifani la lunga contrapposizione tra Fanfani e Aldo Moro, i famosi due cavalli di razza dello scudo crociato, nessuno dei quali pensò mai di andarsene dal partito per liberarsi dell’altro.

Epifani non vuole seguirmi su questa strada. E indica come prova dei metodi inaccettabili di Renzi la pretesa di stabilire lui le regole del congresso, senza passare per la commissione prevista dallo statuto, cui proprio lui si attenne invece quando gesti la preparazione del congresso del 2013. Ma è proprio a quelle regole che Renzi vuole attenersi, fatte da voi, mi permetto di obbiettare.

No, no. Bisogna fare la commissione e lasciare che sia questa a fissarle, dice risentito Epifani parlando sempre delle regole congressuali. Ma questo –osservo- allungherebbe i tempi. Se si adottano le stesse dell’altra volta, che a voi andavano bene, che male ci sarebbe?

A questo punto Epifani, innervosito davvero, beve metà della tazzina del caffè e corre via, spero per arrivare puntuale a qualche appuntamento, e non per sfuggire alle mie domande.

Esco dalla buvette e incrocio Bersani in persona, che corre pure lui, ma non nella stessa direzione di Epifani, per cui desumo che i due non stanno andando allo stesso posto, magari ad una riunione di corrente. Hanno evidentemente fretta entrambi, e basta. Come, del resto, ha fretta pure Renzi di andare al congresso. Che è poi quello reclamato anche dai suoi avversari sino a qualche settimana fa, per esempio quando il governatore pugliese Michele Emiliano, autocandidatosi a segretario, raccoglieva firme e minacciava ricorsi giudiziari, con la sua competenza di magistrato in aspettativa, per obbligare Renzi ad avviare le procedure congressuali.

Ora che a queste procedure Renzi è arrivato senza farselo ordinare da un tribunale, Emiliano eccepisce sui tempi e parla sarcasticamente, sempre con la competenza e il linguaggio del magistrato, di un congresso “col rito abbreviato”.

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Peccato che Epifani, un filosofo con tanto di laurea, prestato prima al sindacato e poi al Parlamento, non mi abbia voluto seguire sulla strada dei ricordi della Dc, di cui il Pd ha preso dieci anni fa con la fusione fra i reduci o eredi della stessa Dc, specie quella di sinistra, e del Pci. Ma forse l’inconveniente del Pd sta nel fatto che “la ditta”, come la chiama Bersani, è ora più nelle mani della componente postdemocristiana – fra Renzi e Dario Franceschini, decisivo per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra – che in quelle della componente postcomunista.

In ogni caso avrei voluto ricordare ad Epifani le elezioni presidenziali di fine 1971 per dargli l’idea di che cosa è o dovrebbe essere un movimento provvisto del senso di comunità democratica, come dimostrò allora di essere il partito democristiano di maggioranza relativa.

A quelle elezioni presidenziali la Dc arrivò, per la successione al socialdemocratico Giuseppe Saragat, con la candidatura dell’allora presidente del Senato Fanfani, proprio lui. Ma non ci fu verso di farlo eleggere. E il segretario del partito, che pure era il fanfaniano Arnaldo Forlani, dovette sudare le proverbiali sette camicie per indurlo a ritirarsi dalla corsa dopo una lunga serie di votazioni affollate di cosiddetti franchi tiratori. Per un po’ i democristiani tornarono ad essere compatti solo quando l’ordine fu di passare davanti alle urne senza schede, per astenersi.

Convinto finalmente Fanfani alla rinuncia, Forlani si presentò all’assemblea dei parlamentari e dei delegati regionali della Dc proponendo la candidatura di Moro. Egli disse, in particolare, che non potevano esserci argomenti credibili contro un democristiano che era stato segretario del partito, più volte presidente del Consiglio ed era in quel momento ministro degli Esteri.

Spiazzati dall’intervento di Forlani, fanfaniani, “dorotei” di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli e “basisti” di Ciriaco De Mita chiesero di rinviare all’indomani mattina la votazione, a scrutinio naturalmente segreto, per la scelta del nuovo candidato.

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Nella notte fanfaniani ortodossi, diciamo così, dorotei e basisti prepararono le polveri contro la candidatura di Moro negoziando l’appoggio dei repubblicani, dei socialdemocratici e dei liberali, ma secondo alcuni anche dei missini, ad una candidatura di Giovanni Leone. Al povero Moro il capo doroteo Rumor in persona comunicò il “rammarico” di non poterlo sostenere perché il voto scontato dei comunisti a favore avrebbe dato alla sua candidatura una valenza politica “impropria”. “Insomma mi hanno confezionato e messo addosso un abito di comodo”, disse Moro mentre Giorgio Amendola, dirigente del Pci, dichiarava: “Tutti ci hanno chiesto i voti nella Dc fuorché Moro”.

Lungi tuttavia dal minacciare scissioni, o dal farsi votare lo stesso da mezza Dc e dai comunisti, come gli aveva chiesto invece Carlo Donat-Cattin dicendogli che “per fare i figli bisogna fottere”, Moro stette al gioco. Battuto da Leone per meno di cinque voti nell’assemblea dei parlamentari della Dc chiamati finalmente a scegliere il candidato, egli chiamò uno per uno gli amici di partito e di corrente per dissuaderli dalla tentazione di boicottare il nuovo designato. E Leone fu eletto il 24 dicembre alla seconda votazione su di lui, e 23.mo scrutinio di quella corsa al Quirinale.

Altri tempi, certo. Altri partiti. E altri uomini, naturalmente. Alla disciplina ora si preferisce la scissione.


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