Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato che nel prossimo budget federale è previsto un aumento di 54 miliardi di dollari per le spese militari. Per dare la dimensione della decisione, definita “storica” da diversi media, basta pensare che la Russia – che dai fan putiniani in giro per il mondo è vista come una potenza globale – investe meno di 70 miliardi come spesa annuale; l’Italia, in totale, circa 22 miliardi di euro. Si tratta di un aumento superiore al 9 per cento, difficile da registrare in tempi di pace.
UNA DECISIONE ANNUNCIATA
La decisione è sulla linea delle dichiarazioni/promesse di campagna elettorale, e si posiziona sul solco politico dell’America First e del Make America Great Again, i due slogan più battuti. E questo perché Trump ha promesso che non toccherà la spesa complessiva, ma realizzerà l’aumento attraverso tagli lineari che intaccheranno i bilanci di altri settori: primi fra tutti i cosiddetti “foreing aid”. Gli Stati Uniti investono miliardi ogni anno per sostenere alcuni Paesi alleati, ma secondo Trump non ne ottengono i benefici necessari. Bloccare questi aiuti è un distillato della necessità di riequilibrare l’impegno americano, e mettere l’America prima di tutto. Secondo aspetto politico: aumentare il bilancio della difesa significa trasmettere all’elettorato un messaggio muscolare, di forza, fare l’America di nuovo grande, e farlo con le armi; strumenti che non dispiacciono a molti dei suoi fan (e nemmeno al partito repubblicano). E infatti il presidente ha richiamato durante un incontro con i governatori “i bei tempi” di quando lui era giovane, quando l’America vinceva le guerre, mentre adesso sembra abbia paura di combatterle. Un riferimento che striscia la lampada della lotta al terrorismo, per cui l’amministrazione Obama è incolpata dai repubblicani di aver tenuto al minimo l’impegno. Scade in questi giorni il mese di tempo che Trump ha dato al Pentagono per rivedere le attività contro lo Stato islamico, ed è previsto che il piano che verrà consegnato sul tavolo dello Studio Ovale abbia al suo interno un approccio al rialzo del coinvolgimento, con più militari al fronte siro-iracheno e più mezzi.
UN INDICAZIONE AD ALLEATI E NORMALIZZATORI
Ci sono anche altri due temi da non sottovalutare dietro a questa scelta di Trump. Il primo: Washington ha più volte richiamato gli alleati Nato sulla necessità di aumentare la spesa militare per far fronte all’accordo sul due per cento del Pil di investimenti sulla Difesa che i membri dell’alleanza si sono presi come impegno nel 2014 – rispettato praticamente da nessuno o già di lì, se si escludono gli Usa. Il segnale che manda la Casa Bianca è forte: noi ci siamo, ci stiamo muovendo, ora tocca a voi (gli Stati Uniti con questa nuova iniezione toccheranno i 650 miliardi annui di spesa per la difesa, e questo significa che il loro budget è pari alla somma degli altri primi sette Paesi in termini di spesa militare). Contemporaneamente, il secondo aspetto, riguarda la presa all’interno dell’amministrazione: c’è una linea di generali, che passa dal capo del Pentagono a quello dell’Homeland Security e arriva diretta all’interno del Consiglio di Sicurezza Nazionale, dove il generale che ne è capo, HR McMaster, in passato aveva preso posizioni a proposito della necessità di aumentare gli investimenti governativi sulle forze armate. Elementi fondamentali a cui è spettato il ruolo di normalizzare l’azione di governo, nel doppio binario seguito in questo primo mese dall’amministrazione, che avranno a disposizione più fondi.
LO SCONTRO CON I DEM
L’aumento della spesa militare, sui cui oltre ai tecnici ha lavorato personalmente lo stratega politico Stephen Bannon con il suo ristretto team di West Wing, deve essere approvato dal Congresso, dove dovrà ottenere la maggioranza qualificata, ossia prendere voti anche da una parte di democratici. E qui servirà un lavoro politico, perché difficile che i dem accettino di incrementare il budget per gli armamenti vedendo tagliate altre voci dal bilancio. Prime fra tutte quelle sull’Ambiente, altra promessa elettorale di Trump. Quattro funzionari di alto livello hanno rivelato al New York Times che sarà proprio l’Enviromental Protection Agency a vedersi maggiormente ridotti i fondi per permettere l’iniezione di dollari al Pentagono. Trump e alcuni dei suoi collaboratori hanno in passato espresso opinioni avverse alla teoria del cambiamento climatico e alla necessità di alzare i controlli ambientali; tra questi anche Scott Pruitt, scelto proprio per guidare l’Epa; Pruitt durante le audizioni al Senato ha leggermente cambiato la linea. È interessante notare che il clima e i suoi cambiamenti sono considerati argomenti di interesse strategico dal Pentagono per due aspetti: le guerre dell’acqua, di cui da poco ha parlato anche Papa Francesco, e le crisi di rifugiati climatici. Un incastro che i democratici useranno come leva sul dibattito per sostenere le posizioni ambientaliste anche in termini di sicurezza nazionale.