Nicola Gardini insegna Letteratura italiana e comparata a Oxford, ed è autore del libro italiano (“Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile” edito da Garzanti) a mio avviso più emozionante del 2016: non solo un saggio, ma un’orazione appassionata sul senso – oggi e per l’oggi – dello studio del latino. “A che serve?”, si chiede l’autore. E la risposta che dà lascia senza fiato: studiandolo, “la mia vita si è allungata di secoli e ha abbracciato più continenti”. Così, Gardini ci invita a ripercorrere le orme di Machiavelli, e a trovare anche noi – come lui cinquecento anni fa – una grande consolazione nella lettura dei classici. Il passaggio della lettera machiavelliana all’amico Vettori è noto: “rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente…”. Proprio così: non si tratta solo di una lettura, ma di un dialogo, di uno scambio, di un essere accolti in una dimensione più intima e più profonda.
Gardini mette subito le cose in chiaro. Altro che lingua morta: il latino è vivissimo. E non solo perché ci racconta una grande civiltà e un immenso impero, ma soprattutto perché ci fa misurare con l’essenza immortale dell’umanità: il potere, la natura, l’amore, l’amicizia, la corruzione, il dovere, la forza interiore.
L’autore del saggio non omette un dettaglio autobiografico toccante, nel quale tanti di noi – ognuno a suo modo – potranno riconoscersi: il primissimo incontro, la primissima scoperta di Catullo, nel caso di Gardini attraverso il celebre carme sulla morte del passero. Incontro casuale, per l’adolescente Gardini: in una sezione dedicata alla metrica di un notissimo manuale di grammatica. Inizia così un’avventura intellettuale e umana, di cui questo libro è una vibrante testimonianza.
Gardini ci accompagna in un viaggio indimenticabile tra gli autori latini, di prosa e di poesia, e il suo è soprattutto un invito alla riscoperta, alla rilettura, o a un rinnovato studio. Cito in ordine sparso e del tutto arbitrario. Catullo e la sua dolcezza. Cicerone e la sua solennità: la lingua che, come un’orchestra, articola concetti e suoni, persuasione e ragionamento. Lucrezio e la lingua trasformata in uno strumento di celebrazione della natura, portando il latino a livelli “fotografici” di descrizione della realtà. Cesare e l’essenzialità: la lingua come paradigma quasi aritmetico, geometrico, di pragmatismo e razionalità. Virgilio e il raggiungimento del massimo standard classico: in qualche misura, se così si può dire, il compimento in poesia di ciò che Cicerone è per la prosa. E poi Seneca: una prosa limpida, specchio di chiarezza filosofica e morale. Diversamente da Cicerone, Seneca non declama, ma medita, connette casi singoli a riflessioni universali.
Le pagine che Gardini dedica proprio a Seneca sono da conservare e rileggere. La Consolatio ad Marciam (Marcia, come si sa, ha perduto un figlio, e Seneca le ricorda che la caducità è inevitabilmente legata alla vicenda umana) parla anche oggi a ognuno di noi, indica la distanza tra la dimensione alla quale dovremmo tendere e – annota Gardini – le piccolezze dell’esistenza umana, “tutta violenza e sotterfugi e disaccordi, mentre ci illudiamo di durare”.
È un libro davvero bellissimo. Leggetelo e regalatelo. Se posso, aggiungo due notazioni personali. La prima. È bene non dimenticare cosa sia stata Roma al massimo del suo splendore: un impero esteso dal Vallo di Adriano al Medio Oriente, dal Nord Africa al Nord Europa. La capacità di proporre a genti diverse un senso, una direzione, una cultura, un’identità. È perfino avvilente (lo ha fatto alcuni anni fa, in un bel saggio, l’attuale ministro degli esteri inglese Boris Johnson) misurare il divario tra ciò che riuscì a Roma e il miserabile collasso dell’Unione europea.
La seconda osservazione. Lo studio del latino (e del greco, così come – su un altro piano – della matematica) è importante soprattutto perché è difficile. La versione di latino è una cosa seria, è una prova dura: impone organizzazione mentale, uno sforzo di sistemazione di concetti e parole, un’attitudine alla risposta rapida a domande complesse, alla ricerca di soluzioni non scontate, alla scelta tra ipotesi diverse, alla valutazione di alternative. È l’essenza stessa del ragionamento. Chi vuole eliminare o limitare tutto ciò a scuola, ci trascina non solo verso una formazione più povera, ma – quel che è più grave – verso una facilità spoglia, che ci lascia mentalmente disarmati, non allenati, prevedibili, banali, più indifesi. Sarà bene tenerlo presente.