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Perché nel Pd la scissione si è già consumata. Il commento di Enrico Mentana

Il clima è da resa dei conti: un scontro tra opposte fazioni che sta mettendo sempre più a rischio l’unità del Partito Democratico. Dopo la direzione nazionale di lunedì scorso – e in vista dell’assemblea in programma domenica – i contendenti continuano a sfidarsi a colpi di interviste al vetriolo, prese di distanza pubbliche e riunioni più o meno segrete. La sinistra Dem medita sempre di più la scissione che a questo punto potrebbe concretizzarsi anche molto prima del previsto. Nel frattempo Matteo Renzi – che si accinge a dare le dimissioni da segretario per poi ripresentarsi nella corsa alla guida della nuova segreteria – ha dato appuntamento ai suoi a Torino tra il 10 e il 12 marzo per presentare la sua mozione. E mentre sabato prossimo si danno appuntamento pubblico a Roma Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza per concordare una strategia comune, domenica è in programma l’assemblea del Pd voluta da Renzi.

Questa di fatto è l’ora della conta, con i maggiorenti del partito – e le rispettive correnti – che prendono posizione da una parte o dall’altra. E’ quanto sta accadendo, ad esempio, tra i Giovani Turchi, il gruppo dominato dal presidente del Pd Matteo Orfini e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il primo è schierato con l’ex presidente del Consiglio, il secondo, invece non si è ancora pronunciato sull’ipotesi scissione minacciata a più riprese da Pierluigi Bersani e dai suoi, ma ha assunto una posizione completamente distante da quella di Renzi.

Un’ipotesi – quella della scissione – sulla quale ieri si è pronunciato da par suo (e cioè senza troppi giri di parole) il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana.

Ecco che cosa ha scritto su Facebook:

La scissione del Pd è nei fatti: parlano due lingue diverse, pensano a alleati opposti, fanno analisi sociali distanti, propongono ricette lontane, si odiano personalmente, hanno votato divisi al referendum, predicano apertamente il mors tua vita mea. Rischia di tenerli insieme solo la convenienza, come i fiamminghi e i valloni, o i fratelli che si odiano ma hanno ereditato un’azienda che continua a macinare utili. E non per modo di dire.

Basti dare un’occhiata al peso istituzionale del partito. Dal Pd viene il capo dello stato. Del resto tutti gli ultimi 4 presidenti della Repubblica sono stati espressione diretta di quell’area che poi ha dato vita al Pd. Ma del Pd sono tutti i tre premier di questa legislatura, e 400 parlamentari su 945, nonostante il partito abbia ottenuto alle elezioni del 2013 meno del 26%. Del Pd è il nostro unico rappresentante nella commissione Ue. Del Pd la maggior parte dei governatori regionali e dei sindaci delle città capoluogo. Del Pd sono il ministro dell’interno, della giustizia, della difesa, dell’economia, delle infrastrutture, del lavoro, dell’istruzione. Scelti da premier del Pd sono i vertici di tutte le aziende strategiche di competenza statale. E si potrebbe andare avanti.

Il Pd è l’essenza dell’establishment italiano, nella fase storica in cui l’establishment è sempre più l’emblema del loro contrapposto al noi dei movimenti che hanno sempre più presa nell’opinione pubblica. Ai tempi del Pci di Berlinguer l’Unità era il principale quotidiano di opposizione, e sulla sua prima pagina ogni giorno il celebre corsivista Fortebraccio sbeffeggiava la classe di governo, gli industriali, i boiardi e i banchieri. Li chiamava “lorsignori”. Ora in un contrappasso storico lorsignori, agli occhi delle opposizioni, sono loro. A distanza di tre giorni Bersani e Veltroni hanno descritto il nuovo vento che loro chiamano destra – non solo Trump e Le Pen – quasi con gli stessi aggettivi, sovranista, identitaria, protezionista, populista. Ma il problema è che non esiste un’analisi sulle cause di quel fenomeno che ormai è ben visibile ovunque. Un’analisi che sarebbe impietosa sui limiti dei partiti che hanno dominato il gioco democratico in America, in Europa e in Italia, e delle istituzioni sovranazionali che hanno generato.

Nella lunga fase in cui la crisi ha limitato la distribuzione della ricchezza e il funzionamento del welfare, la coperta democratica si è fatta troppo corta, ma sotto di lei hanno continuato a trovare posto comodamente e ostentatamente i soliti integrati, gonfiando sempre più l’area dei nuovi apocalittici, non più ideologizzati come quelli di 50 anni fa, ma solidamente basici: via loro, tocca a noi, con tutti i mezzi, un’elezione o un referendum. Forse un partito come il Pd, prima di spaccarsi o di decidere di non farlo, dovrebbe cominciare a discutere di queste cose, magari con la scusa di onorare il decennale di quel libro di successo, La casta“.



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