Matteo Renzi ha giocato di contropiede. Si è presentato alla direzione del Pd sfidando le minoranze, ma anche i settori inquieti della sua maggioranza, al congresso anticipato del partito. Che – ha avvertito – non dovrà servire a decidere quando si andrà a votare per il rinnovo delle Camere, alla loro scadenza ordinaria, fra un anno, o prima. Questa sarà una decisione dell’unico abilitato dalla Costituzione a prenderla: il presidente della Repubblica. Il quale valuterà a tempo debito gli argomenti a favore o contro il ricorso anticipato delle urne, essendone di validi in un verso o nell’altro.
Il congresso dovrà servire solo a fissare la linea del partito e a decidere chi dovrà gestirla. E una volta prese queste decisioni, non si dovrà ripetere – ha ammonito Renzi – lo spettacolo verificatosi dopo la sua prima elezione a segretario, poco più di tre anni fa, quando le minoranze non si sono lasciate scappare tutte le occasioni possibili e immaginabili per rimettere tutto in discussione, come se il congresso non si fosse mai chiuso.
Renzi naturalmente parteciperà alla battaglia congressuale per farsi rieleggere. E per non diventare quello che i suoi avversari interni hanno cercato inutilmente di farlo diventare: “l’uomo dei caminetti”, delle trattative fra le correnti dietro le quinte, della spartizione sotterranea dei posti. “L’uomo – ha detto Renzi – della palude”. Che per lui è diventato un pericolo ancora più grande e insopportabile dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale.
Il Pd che Renzi si propone di continuare o riprendere a guidare dovrà affrontare in Europa la svolta che lui personalmente ha proposto più volte quando era a Palazzo Chigi. L’Europa delle regole da rispettare, certo, ma anche da cambiare, perché con le regole attuali non si uscirà dalla crisi economica e sociale, non ci sarà lo sviluppo. Ci dovranno essere spese, e non solo quelle per la difesa, il cui aumento è prevedibile dopo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, ma anche quelle per la cultura, e per gli investimenti, che dovranno essere escluse dal famoso fiscal compact. Di cui il segretario del Pd ha ricordato le modalità di adozione, che prevedevano una messa a punto, una verifica, prima di farla entrare nei trattati, come invece i tedeschi hanno mostrato di non voler fare in previsione del vertice di marzo per il sessantesimo anniversario della firma dei primi trattati, appunto, della comunità europea.
L’insistenza di Renzi sul tema del cambiamento delle regole europee, oltre che del loro rispetto, significa che quando si andrà a votare, quando cioè Mattarella si convincerà a rimandare gli italiani alle urne, alla scadenza ordinaria della legislatura o prima, significa che egli intende condurre una campagna elettorale spiazzante per quei movimenti di destra e d’altro tipo – da Matteo Salvini a Beppe Grillo, per intendersi- che cavalcano da tempo il cosiddetto antieuropeismo.
Pier Luigi Bersani è arrivato all’appuntamento della direzione del Pd criticando il congresso in tempi rapidi, o -come lo chiama Michele Emiliano, il governatore pugliese candidatosi contro Renzi – “col rito abbreviato”. Che dev’essere un po’ una fisima per Emiliano: un magistrato che, per quanto impegnato in politica da molto tempo, non ha ritenuto ancora di rinunciare definitivamente alla toga, limitandosi all’aspettativa. E protestando, di recente, per avere osato il Consiglio Superiore della Magistratura porgli il problema di fare una scelta.
Fedele allo spirito critico col quale era arrivato all’appuntamento, Bersani nel suo intervento ha chiesto che il congresso si svolga alla scadenza ordinaria di fine anno, per cui le procedure andrebbero avviate a giugno. Un congresso anticipato, secondo lui, sarebbe “un cotto e mangiato” inaccettabile e pericoloso. Metterebbe “troppa ansia”. Sarebbe la prosecuzione degli “appuntamenti stressanti” inseguiti da Renzi durante i tre anni della sua segreteria, sino a sbattere contro il referendum del 4 dicembre. Che, in realtà, era un appuntamento costituzionalmente inevitabile, al cui esito negativo per il Pd, e non solo per Renzi, Bersani, Massimo D’Alema e gli altri critici ed avversari del segretario hanno dato il loro contributo, senza minimamente nasconderlo, anzi vantandosene e festeggiando. Lo ha fatto, in particolare, D’Alema, presentatosi anche lui in via eccezionale alla riunione della direzione, svoltasi in una sala a poca distanza dal largo del Nazareno, cioè dalla sede del partito.
Con un discorso dal tono un po’ paternalistico, pieno di esortazioni ai “ragazzi” della platea, in stile un po’ crozziano – da Maurizio Crozza, il comico che lo imita come pochi, anzi come nessun altro – Bersani non si è fidato dell’appello di Renzi a rimettersi alle valutazioni del capo dello Stato sul momento di andare alle urne. Egli ha proposto di assumere “prioritariamente” un impegno per la conclusione ordinaria della legislatura, lasciando al governo di Paolo Gentiloni e ai gruppi parlamentari il tempo per fare “due o tre cose” importanti, fra le quali naturalmente una nuova legge elettorale.
L’ex segretario del Pd è arrivato nel suo intervento a sdoppiarsi, dicendo di sentirsi con i suoi appelli alla calma e ai tempi lunghi “italiano, prima ancora che bersaniano”. Un altro stimolo – immagino – per la fantasia e gli spettacoli di Maurizio Crozza.