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Chi sbraita (e chi gongola) per la sortita poco renziana di Giorgio Napolitano

CARLO CALENDA

Occhio, come sempre, alle vignette. Che superano sempre di più per chiarezza, e qualche volta anche per preveggenza, gli editoriali, i saggi, le interviste e quant’altro affollano i giornali contribuendo spesso a renderli illeggibili, e far perdere loro nelle edicole la gara quotidiana, diciamo così, col mercato.
Di affollati, a dire la verità, non ci sono solo i giornali. Questa volta sembra un po’ affollato anche il Quirinale, dove siede un presidente regolarmente eletto dalle Camere e in salute, di nome Sergio e di cognome Mattarella. Sì, proprio quello che diede nel 1993 il suo nome tradotto in latino alla legge elettorale che regolò le prime competizioni politiche della cosiddetta seconda Repubblica, con un sistema prevalentemente maggioritario. Di cui forse anche i cittadini, e non solo i giudici della Corte Costituzionale, sembrano essersi stancati, visto che stiamo tornando al vecchio sistema proporzionale, magari solo con qualche variante.

Oltre a Mattarella, però, al Quirinale si avverte frequentemente anche la presenza, non solo fisica, del predecessore: il presidente ora “emerito”, e senatore a vita di diritto, Giorgio Napolitano. Le cui dichiarazioni contro la corsa alle urne guidata, con paradossali accostamenti, da Matteo Renzi, Beppe Grillo, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, hanno ispirato al vignettista Giannelli, sulla prima pagina del Corriere della Sera, un quadretto per niente surreale.

In particolare, Giannelli ha immaginato il buon Napolitano seduto ai giardinetti, vestito di tutto punto in tenuta presidenziale, che sfoglia un giornale e risponde così ad un coetaneo curioso che gli chiede che cosa si potrebbe fare per evitare le elezioni se il povero presidente del Consiglio in carica presentasse le dimissioni, evidentemente convinto da quel perfido amico che sarebbe Renzi. Il finto, ma non troppo, Napolitano risponde, senza remore: “Potrei dare l’incarico a un altro”, per cercare evidentemente di formare un governo sostenuto – aggiungo io – da tutti i parlamentari contrari a perdere il mandato anzitempo. E parecchi – aggiungo sempre io – oltre al mandato, perderebbero anche il cosiddetto vitalizio, perché essendo di prima nomina ne maturerebbero il diritto solo in autunno, a sei mesi dalla scadenza ordinaria della legislatura, fissata a fine febbraio dell’anno prossimo.

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Non dissimile, ma forse ancora più esplicita e politicamente pungente, è la vignetta del bravo Sergio Staino sulla sua Unità, peraltro ancora in sofferenza avendo gli editori rinviato al 10 febbraio le loro decisioni sulla sorte della storica testata della sinistra italiana fondata un centinaio di anni fa da Antonio Gramsci.

In particolare, Staino fa dire al suo Bobo, stimolato al solito dalla figliola, che il segretario del Pd può in fondo considerarsi fortunato a sentire sopra di sé, al Quirinale, “solo due presidenti della Repubblica”, e non ancora di più, magari dislocati in altre vesti e in altri palazzi. Alludo, per esempio, ai presidenti delle Camere, fortemente contrari pure loro allo scioglimento anticipato delle rispettive assemblee, soprattutto a Pietro Grasso. Che si vorrebbe godere ancora di più il suo Senato, specie ora che la bocciatura della riforma costituzionale il 4 dicembre scorso le ha ridato un futuro ricco e sereno. Ma alludo anche a qualche ministro, che si è sentito probabilmente incoraggiato dalle dichiarazioni di Napolitano pronunciandosi anche lui contro le elezioni anticipate, e il capo del suo governo che le persegue. Sto scrivendo, in particolare, del ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda. Non parliamo poi dei tanti avversari di Renzi interni al partito e dichiarati, pronti alla scissione se il “giovanotto”, come lo chiamano, non si deciderà a fermarsi e a rovesciare le precedenze: dalle elezioni al congresso anticipato, che dovrebbe naturalmente servire a farlo cadere anche da segretario, non ritenendo essi sufficiente la perdita di Palazzo Chigi dopo la batosta referendaria di dicembre. I volti e i nomi di questi avversari sono notissimi: vecchi leader della sinistra come Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, con relative corti di fedelissimi e portavoce.

L’ebbrezza antirenziana è ormai tale che al Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, dimenticando che quella del segretario del Pd per le elezioni anticipate è anche la causa di Beppe Grillo da loro condivisa, hanno titolato così in prima pagina, in apertura e a caratteri vistosissimi: “Arrenditi Matteo, sei circondato”. In particolare, circondato dalla “vecchia guardia” raffigurata da D’Alema, Bersani, Romano Prodi e Giorgio Napolitano. Manca, forse non per dimenticanza o rispetto, Sergio Mattarella, l’unico inquilino legittimo del Quirinale in questo momento. E provo anche a spiegarvi, anzi ad immaginare il perché. A pensare male – torno a ripetere il vecchio adagio andreottiano – si fa peccato ma ci si azzecca.

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Poiché le reazioni alla sortita di Napolitano contro le elezioni anticipate, e con la motivazione che non sarebbero da “paese civile”, hanno provocato forti proteste di chi invece non vede l’ora di mandare gli italiani alle urne, sino alle solite esagerazioni del segretario leghista Salvini, secondo il quale l’ex presidente della Repubblica sarebbe “un traditore” e avrebbe dovuto essere stato per questo già processato dalla Corte Costituzionale, il buon Mattarella si è affrettato a chiamare il successore per esprimergli la solita, dovuta e sincera solidarietà, facendone dare naturalmente notizia ufficiale.

Poi però dallo stesso giro del capo dello Stato, come risulta da alcune cronache politiche, si è fatto sapere che la solidarietà di Mattarella a Napolitano si riferiva agli attacchi di stile leghista, o simile. Solo a quelli, restando evidentemente la valutazione e le decisioni in materia di elezioni anticipate di stretta competenza di Mattarella, che dirà la sua se e quando sarà investito del problema. E così dev’essere apparso anche al Fatto Quotidiano, come rifiuto cioè di considerare scontato il no del capo dello Stato ad uno sviluppo della crisi nella direzione delle urne, secondo le prerogative e le forme conferitegli dall’articolo 88 della Costituzione.



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