Effetto flipper. O come viene detto in termini commerciali: trade diversion. Cosa succede se gli Stati Uniti alzano le barriere commerciali contro la Cina? Che la pallina finisce in buca in Europa. Perché? Le nostre difese commerciali non solo sono già abbastanza modeste (i dazi anti dumping sono mediamente la metà di quelli che ad esempio applicano gli Usa, il Canada o il Giappone) ma sono anche oggetto di una revisione dei 28 stati. E perché sul riconoscimento dell’economia di mercato alla Cina di fatto l’Europa ha preso una “non posizione” permettendo a tanti prodotti asiatici da questo 2017 di poter invadere il Vecchio Continente.
L’effetto triangolazione – per cui ai muri di Trump verso Pechino (e non solo) corrisponde una prateria in Europa – è oggetto di attenzione da qualche settimana da Confindustria che ha provato ad evidenziarne le problematiche in un’audizione alla Commissione Attività Produttive alla Camera (Testo dell’audizione).
La partita sembra molto complicata. Perché in una fase storica di crescente protezionismo, non solo a parole, la linea europea appare quella del compromesso per non inimicarsi la Cina che è al tempo stesso un pericolo ma anche una grande opportunità per i suoi ingenti capitali e come valvola di sfogo per le nostre esportazioni.
Il combinato disposto però della modifica degli strumenti di difesa commerciale – ci provò per primo il Commissario al Commercio Peter Mandelson nel 2006 a cambiare in modo decisamente liberista le regole di difesa ma fu stoppato dall’operato del ministro del Commercio Internazionale dell’epoca, Emma Bonino – e la questione del Market Economy Status stanno già allarmando diversi settori del made in Italy che temono che le politiche di dazi e muri commerciali annunciati da Donald Trump alla fine danneggeranno proprio la nostra produzione.
Come quella dell’acciaio che già ha sperimentato sulla propria pelle gli effetti della sovrapproduzione di Pechino. Lo ha spiegato recentemente Flavio Bregant il direttore generale di Federacciai in un’audizione al Parlamento. “Le importazioni dalla Cina crescono per tutta l’Europa, ma crescono di più in Italia: questo significa che l’Italia è una ‘porta’ dell’Europa, quindi il dumping è più sentito da noi che in altri Paesi. Non è solo la Cina che importa in Europa, ma è quella che ha scatenato il problema e, data la sua mole, produce metà dell’acciaio mondiale, quindi è anche quella che scatena i maggiori problemi”. Resta inimmaginabile cosa potrebbe accadere per l’Italia se la politica dell’American first voluta da Trump si concretizzasse nell’aiuto all’industria di provincia dell’acciaio a stelle e strisce che, per rialzare la testa, deve inevitabilmente essere sostenuta con dei superdazi da imporre allo strapotere cinese.
Ma non solo. Effetti flipper si potrebbero avere anche per il tessile, il calzaturiero, l’elettronica, l’arredo o la ceramica. Basta prendere questo settore per capire l’implosione che potrebbe verificarsi. Nel 2011 dopo un’istruttoria europea si scoprì il dumping di molte imprese cinesi che vendevano sottocosto i loro prodotti. Per cinque anni sono stati imposti dei dazi fino 70% e, guarda caso, in questo quinquennio grazie a queste misure le vendite di ceramica cinese sono diminuite in Europa del 65%, passando da 65 milioni di metri quadri a 20-25 milioni. Ma queste misure sono in una fase di prorogatio e scadranno questo anno e già la Federazione dell’industria ceramica europea teme un effetto domino che potrebbe spazzare via il comparto con la perdita di 300mila posti di lavoro dei quali 40mila solo in Italia.
Non c’è dubbio che “la variante Trump” disegna un quadro assai complicato per il commercio internazionale e ingarbuglia molto una matassa già difficile da dipanare. La posizione americana, condivisa dal Giappone, di non fare più sconti commerciali alla Cina, può spostare enormi flussi di merci vendute a basso costo proprio verso l’Europa. “Più in generale – ha osservato la Vice Presidente della Confindustra, Lisa Ferrarini (nella foto) – il fatto che il principale attore industriale mondiale guardi alla politica commerciale come uno strumento per favorire il re-shoring degli investimenti produttivi dovrebbe far riflettere l’Europa, che sembra piuttosto impegnata a spalancare le porte ai concorrenti extra Ue“.
Già intanto non si sa se l’Europa è davvero pronta, per dirla con un editoriale di qualche settimana fa dell’Economist , “a fronteggiare l’era Trump” di fatto tra i due litiganti (Usa da una parte e Cina dall’altra) ma restare con il cerino in mano potrebbe essere proprio il Vecchio Continente e la strategia del compromesso che non sta aiutando le imprese manifatturiere che rischiano di fare la fine della pallina del flipper.